Con questa premessa, Il libro dei gatti tuttofare mi ha
fatto subito sorgere questa domanda: ma che c’entra Eliot con i gatti, e per
giunta tuttofare?
martedì 12 giugno 2012
Il libro dei gatti tuttofare – Sorprendente l’autore.
Questo è un libro pieno di stranezze, a partire dall’autore:
nientemeno che Thomas Stearns Eliot. Io lo conoscevo dai tempi del liceo, come
un autore “serio”…almeno, tutti gli autori che si studiano al liceo sono visti
come “seri” perché li si conosce attraverso i libri di scuola, dimenticando che
prima di essere scrittori, poeti, e poi “classici”, “impegnati”, “importanti”
(gente seria, insomma), sono esseri umani. Esseri umani particolarmente dotati
e particolarmente desiderosi di esprimersi. Qualcuno anche esagerando…ma è solo
una mia opinione, ovviamente. Ritornando
a T.S.Eliot, io conoscevo di lui altre opere come The Waste Land e Murder in
the Cathedral, che non sono propriamente libri di lettura leggera. Per l’ombrellone
è meglio scegliere qualcos’altro, anche se sono entrambi parecchio interessanti
e ricchi. Murder in the Cathedral mi ha sempre colpito, perché è così…teatrale.
A parte il fatto che è davvero un dramma teatrale, la stessa ambientazione dell’assassinio
(una cattedrale, e per essere più precisi, la Cattedrale di Canterbury), l’identità
dell’assassinato (Thomas Becket, l’arcivescovo di Canterbury), nonché quella
degli assassini (alcuni tra i cavalieri più vicini al re, Enrico II d’Inghilterra)
contribuiscono ad elevare il “tono”. Non un curato di campagna tremebondo (e
qui difficile non ricordarsi il nostrano Don Abbondio…), non una chiesetta in
un paesetto sperduto in Svizzera, non un gruppo di teppistelli ubriachi, ma
nientemeno che un Arcivescovo, a Canterbury in Inghilterra, e quattro tra i
cavalieri più vicini al trono inglese del momento.
domenica 10 giugno 2012
Imparare l’ottimismo – Scontro di stili
Quello che mi colpisce, e molto positivamente, è che l’autore
ha un approccio talmente pratico alla materia che parte a raccontare molto
spesso di sé e delle sue stesse reazioni di fronte agli avvenimenti. Seligman è attualmente uno psicologo stimato, il fondatore di una “corrente” nuova, la
psicologia positiva, autore di libri diventati best sellers, Presidente dell’APA
(American Psychological Association) per diverso tempo in passato. Ma non è nato in queste cariche alte, e non si
è trovato coperto di onori per caso o in modo semplice. Essendo un innovatore,
e un rivoluzionario da un certo punto di vista, ha avuto il coraggio e la forza
di contrastare quelli che erano gli dei del momento nell’ambito della
psicologia in America negli anni ’70, i comportamentisti. Secondo questa
corrente di pensiero, gli esseri umani dovevano il loro comportamento unicamente
a fattori esterni, e in modo più specifico, alle ricompense e alle punizioni
ricevute nel corso della loro vita. La coscienza, il pensiero, la capacità di
progettare, elaborare, creare, non contava nulla. In questo caso, il
comportamento dell’individuo varia al variare dell’ambiente: se l’ambiente
cambia e diventa positivo, allora anche l’essere umano diventerà positivo. E
gli esempi sono anche molto semplici: la povertà diventa la vera causa della
criminalità, secondo questo approccio. Una volta eliminata la povertà, anche i
crimini scompariranno. La stupidità deriva dall’ignoranza: con l’aumento della
scolarizzazione, anche questa verrà “curata” e scomparirà. Sono idee che assomigliano pericolosamente a luoghi
comuni e portano via una parte considerevole dell’interazione della vita. Dov’è
la responsabilità individuale? Dov’è la capacità di reagire, di elaborare un
evento e di trasformarlo, se necessario?
lunedì 28 maggio 2012
Imparare l’ottimismo – Un apprendimento
Questo è un libro da leggere piano e applicare una pagina al
giorno. Seligman, dopo aver introdotto l’ottimismo, parla subito del grande
antagonista, il pessimismo. Anche il pessimismo s’impara. E come si può
imparare, si può anche disimparare.
“Ottimisti e pessimisti: li studio da venticinque anni. La
caratteristica che definisce i pessimisti è che essi tendono a credere che gli
eventi negativi durino molto tempo, distruggano tutto e siano la conseguenza di
colpe proprie. Gli ottimisti, quando devono confrontarsi con le avversità di
questo mondo, si comportano in maniera opposta. Tendono a credere che la
sconfitta sia solo temporanea e che le sue cause siano circoscritte ad uno
specifico evento. Gli ottimisti credono che il fallimento non sia conseguenza
di errori propri, ma delle circostanze, della sfortuna o delle azioni di
qualcun altro. Gli ottimisti non si scoraggiano dopo una sconfitta.
Percepiscono una situazione negativa
come una sfida da sostenere strenuamente.”
(Martin Seligman,“Imparare l’ottimismo” – Giunti, pag.7)
Questo paragrafo, da solo, vale un intero manuale di
istruzioni. Pochi tocchi, ed ecco i ritratti accurati degli eterni
antagonisti. E quanto è preciso e
corrispondente a verità! Ho riletto queste righe più volte, riconoscendomi in
diversi punti dello schieramento, sia da una parte sia dall’altra. E’ vero che
sono un’ottimista di natura, ma ho attraversato e ogni tanto mi capita tutt’ora, di attraversare diversi momenti bui in cui
ritengo che gli eventi negativi dureranno per sempre e che siano sempre e solo
colpa mia. L’età, gli eventi, una
conversione, hanno fatto in modo che vedessi piuttosto chiaramente
questo meccanismo di pessimismo che scattava subito dopo un evento negativo. Porvi
rimedio e cambiargli segno non è facilissimo, e nemmeno immediato. Non basta
dirsi che andrà tutto bene o fischiettare un motivetto allegro come dice
Seligman qualche pagina dopo…è il pensiero alla base di queste affermazioni che
DEVE cambiare di segno, per portare al CAMBIAMENTO DI ATTEGGIAMENTO NELLA
PRATICA.
lunedì 30 aprile 2012
Imparare l’ottimismo – Insospettabile…
Sembra una scelta modellata sui tempi attuali, che non hanno
niente o quasi di positivo o di incoraggiante. I libri, solitamente, svolgono
il ruolo di “incoraggiatori” al meglio, dato che aprono sempre la mente
spingendola a guardare e riflettere oltre la situazione del momento. Il titolo
mi ha colpito subito, perché ho sempre pensato che ottimismo e pessimismo
fossero caratteristiche intrinseche e quasi immutabili della persona, quasi
come il colore degli occhi o dei capelli. Nonostante si possa intervenire
abbastanza facilmente su questi, cambiandoli con lenti a contatto e tinture, è
difficile che occhi azzurri diventino verdi o neri nelle iridi, senza qualche intervento soprannaturale
o fantascientifico (tipo quello che capita nel film Face Off). O sei pessimista, o sei ottimista, ecco cos’ho sempre
pensato. In questo libro, però, la questione non è così bianco-nero,
luce-ombra. Esiste una tendenza a pensare positivamente o negativamente, nell’individuo,
determinandone così l’atteggiamento ottimista o pessimista, ma non si tratta di
nulla di immutabile o su cui non si possa intervenire. Infatti, il sottotitolo
è piuttosto chiaro, oltre che molto allettante:
Come cambiare la vita cambiando il
pensiero. A questo punto sono
decisamente affascinata e il libro mi riaccompagna a casa. E’ un libro intenso
sin dalle prime pagine: l’argomento è abbastanza complesso e l’approccio che sceglie
Martin Seligman è facile, ma non facilone; semplifica ma non sminuisce la
materia. Usa moltissimi esempi tratti dalla vita quotidiana, in cui ci troviamo
tutti, in ogni secondo del nostro tempo, ad ogni latitudine, con qualunque
temperatura e qualunque sia la lingua che usiamo per esprimerci. Il primo
aneddoto che usa per esemplificare i due modi principali per porsi nella vita
riguarda una giovane famiglia: padre, madre, bimba neonata. Il padre la guarda
orgoglioso e felice nella culla, la bimba si risveglia dal suo sonno, il
genitore le sorride e tenta di attrarre la sua attenzione chiamandola, non
ottenendo risposta. La chiama di nuovo, ma nessuna reazione dalla bimba, che ha
gli occhi aperti e si muove, ma non lo guarda. Il padre inizia ad angosciarsi.
Quasi di sicuro c’è qualcosa che non va. Batte le mani più forte per attirare l’attenzione
della bambina, ma ancora nulla. Ecco. Lo sapeva. La bambina è di sicuro sorda.
lunedì 16 aprile 2012
Tre atti due tempi – Un gioco pericoloso
Il protagonista che narra la vicenda è un magazziniere, padre di un calciatore giovane, ambizioso e sicura promessa, che sogna la serie A e una vita di soldi a pioggia e comodità infinite. Proprio inseguendo la sua ambizione, il giovane accetta di “vendere” la partita ad alcuni figuri poco chiari, che risulteranno poi avere collegamenti in alto, e in posti impensati. Il padre, soprannominato Silver, scopre quasi subito il gioco sporco, e ne rimane folgorato di dolore. E’ un personaggio, però, che è abituato a ricevere pugni in faccia e a contraccambiarli con forza, essendo stato un pugile in gamba in gioventù, passato attraverso gli stessi sogni di gloria e lo stesso contatto ruvido con la realtà fatta di scommesse truccate e soldi facili. Di fronte ad una situazione del genere, si può agire o subire. SIlver agisce, e lo fa in maniera creativa, astuta, cogliendo di sorpresa il lettore, che non si aspetta un guizzo brillante come quello, e lo stesso personaggio, che non si aspetta di trovare in se stesso un gusto per l’intrigo e la soluzione sottile, avendo sempre adoperato i pugni per sistemare i problemi. Tre quarti del libro è dedicato allo svolgersi di questa “risoluzione” al problema della partita truccata nel tentativo di sventare il crimine e di salvare l’”anima” (e soprattutto la fedina penale) del giovanotto ambizioso e impulsivo. Naturalmente, mi guardo bene dallo scendere nei particolari: è talmente ben congegnata e così poco prevedibile, che si può solamente assistere, facendo il tifo (siamo in tema) per Silver, e trattenendo il respiro ad ogni suo passo falso o esitazione. I colpi di scena sono finiti? Certo che no. Faletti non lascia riposare chi lo legge tanto facilmente, e non lo rassicura con un lieto fine completo. Anche solo una goccia d’amaro, ma questo arriva a intorbidare un angolo di tutta la fatica fatta per districarsi in una situazione complicata, criminosa e gigantesca. E’ quello che mi piace del modo di scrivere libri di Faletti: le situazioni possono anche essere al limite della fantasia più pura, ma hanno sempre spazio per i graffi degli artigli della realtà, per quanto più leggeri e meno sanguinari di quanto succede al di fuori dei libri.
domenica 1 aprile 2012
Tre Atti e due tempi - La bizzarria
Ecco un autore che per me è stata un’autentica sorpresa, e molto, molto piacevole. Giorgio Faletti era noto per i suoi personaggi comici che a lungo hanno animato Drive In. Dopo un lunghissimo periodo passato a prendersi cura di sé, si è proposto come scrittore con Io uccido. Ed è stato subito un successo planetario, con un susseguirsi di edizioni, commenti, recensioni entusiastiche, ecc. E una lunga serie di libri (che ho quasi tutti), uno più bello e ampio dell’altro. Credo di poter dire che Io uccido è quello che mi ha colpito di meno, se lo paragono ai suoi successivi. Adoro lo stile di Faletti. Asciutto, fino a diventare arido qualche volta. Non lascia mai indifferenti. I suoi titoli sono sempre molto particolari, mai banali. Ha un uso delle frasi e delle parole, combinandole insieme a formare metafore o espressioni di stati d’animo, che non si ritrova spesso. Qualche volta mi sono ritrovata a rileggere due volte la stessa frase, soprattutto quando parla di una sensazione, analizzando parola dopo parola, e ascoltando cosa evoca. Quasi sempre incontra una sensazione o un sentimento che ho provato anch’io nel corso dell’esistenza. Niente di vero tranne gli occhi, Fuori da un evidente destino, Appunti di un venditore di donne…non sono titoli semplici. Ci puoi anche scherzare sopra. Niente di vero tranne gli occhi? Si parla di un oculista? Fuori da un evidente destino: cosa? Chi? Da quando il destino è evidente e come fai a starne fuori? Appunti di un venditore di donne: per commettere crimini è necessario prendere appunti? O lasciarli? Ammetto, sono domande senza senso che mi sono fiorite dentro ogni volta che prendevo in mano il libro in questione e leggevo il titolo. Non era pensabile che lo rimettessi a posto, dimenticandomene. Dovevo scoprire ogni volta cosa si nascondeva dietro quell’indicazione così bizzarra. La prima associazione che mi viene in mente riguarda il primo incontro tra Alice e il coniglio bianco nel Paese delle Meraviglie. L’animaletto che corre e sbuffa dicendo che è tardi, terribilmente tardi. Come si fa a disinteressarsi? Bisogna scoprire perché è tardi e per cosa. Allo stesso modo, io mi comporto con i libri di Faletti. Devo capire dove portano. Anche Tre atti e due tempi non si sottrae a questa regola. All’inizio ho pensato ad un’opera teatrale. Sì, ma tre atti e due tempi. C’è qualcosa che non mi torna. Ho scoperto subito che l’argomento era ben lontano dai teatri,ma si situava sui campi di calcio in Italia di una cittadina all’interno della serie cadetta, la serie B. I tre atti e i due tempi, però, scandiscono una “tragedia” di cui sentiamo parlare praticamente da sempre, ovvero il calcio scommesse. Questa volta l’occhio narrante è dentro, molto dentro la vicenda, anche troppo per i suoi gusti.
domenica 25 marzo 2012
Twilight – Un’ironia insolita
E’ un libro di vampiri strani, questo. Viene subito fuori che Edward Cullen fa parte di una “famiglia” di vampiri: padre, madre, alcuni fratelli e sorelle. Prima deroga alla figura del vampiro, oscuro, malvagio, e sempre solitario. Il padre (e in senso vampiresco lo è) è un medico, che lavora nell’ospedale della cittadina. Seconda clamorosa deroga. I vampiri lavorano? Si mostrano di giorno (mai al sole, però)? Non si nutrono di sangue umano? E poi, far lavorare un vampiro in un ospedale equivarrebbe ad affidare una serie di pollai alle volpi. Secondo me, questo è un tocco d’ironia sottilissimo e molto divertente da parte dell’autrice. Il Dottor Cullen, il padre di Edward, è anche un medico capace e molto stimato dalla comunità. Si sarebbe portati a pensare ad una doppia vita dietro alla facciata gradevole: se lavora in ospedale, ha libero accesso a sangue e vittime, che poi può facilmente occultare. Invece, emerge che il medico vampiro ha dato prova, nel corso dei secoli, di una forza d’animo talmente straordinaria da essere capace di imporsi sulla propria natura di predatore. Non solo cerca con tenacia, fino a trovarlo, il nutrimento alternativo per lui e i suoi simili, che educherà a dominare e trasformare la propria sete oscura, ma si dedica ad aiutare e curare proprio quelli che dovrebbero comporre le portate principali dei suoi pasti, gli esseri umani. Un angelo con ali di pipistrello. Edward e i suoi fratelli non mostrano lo stesso desiderio di mescolarsi ai loro concittadini. Per quanto addestrati a tenere sotto controllo gli istinti, non sembrano fidarsi della propria forza come fa il medico. In effetti, a scuola formano un loro gruppo appartato, anche per non dover essere costretti a spiegare perché non mangiano mai dalla mensa, pur prendendo vassoi e portate come tutti gli altri studenti. Quando Edward incontra Bella per la prima volta, la protagonista femminile, il vampiro distante e superiore nella sua forza e longevità, riceve un duro colpo. La ragazza è talmente irresistibile (pur essendone completamente inconsapevole) che in lui si risveglia la sete e solo un’enorme sforzo di volontà gli impedisce di vanificare il suo addestramento. All’inizio sembra odiarla, e lei stessa ha questa impressione. Lei rimane soggiogata dal suo fascino, ma intimorita dalla strana espressione di odio famelico che gli legge in viso, di cui non sa proprio spiegarsi l’origine. Inizia un rapporto ambiguo, sottile, fatto di silenzi, sguardi, supposizioni (soprattutto da parte di Bella, che è la voce narrante del libro), salvataggi tempestivi e del tutto straordinari da parte del vampiro, che diventa suo malgrado un angelo custode, pur se con ali di pipistrello come suo padre. Man mano che i due ragazzi si conoscono meglio (e Bella intuisce quasi subito la natura oscura del giovane e non ne rimane granché spaventata), il rapporto si colora di una certa sensualità ritrosa e anche ironica. Stephenie Meyer è di sicuro una donna ironica, abituata a sovvertire cose e situazioni. All’inizio è il vampiro ad essere attratto dalla ragazza, perché il suo profumo gli fa quasi perdere la testa e l’addestramento. Ma poi è lei che perde letteralmente la testa quando lui si avvicina fino a baciarla. Il contatto con il vampiro scatena una passione insospettata in una ragazza all’apparenza normale e dimessa (secondo la visione che Bella ha di se stessa), che deve “controllarsi” per non andare oltre. Anche perché, quell’oltre potrebbe avere conseguenze più tragiche di quanto comunemente accade.
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