Tra i fili umani che s’intrecciano, e spesso s’ingarbugliano,
si strappano l’un con l’altro, o si moltiplicano, c’è anche quello di Philip,
priore di Kingsbridge. Quando compare sulla scena, è un giovane monaco gallese di
un piccolo monastero poco distante da Kingsbridge dove poi andrà a stabilirsi
per tutta la vita. Ha un fratello più giovane, anch’esso monaco, fatto di una
stoffa ben diversa dalla sua. Mentre Philip ha Dio con sé, gli parla, lo cerca,
mette in pratica i suoi insegnamenti per costruire valore, per aiutare gli
altri e per portarli verso di Lui con il suo esempio, Francis incarna il lato
temporale della Chiesa, quello più nascosto, che si occupa principalmente di
giochi di potere. Nel corso del romanzo, Francis comparirà pochissime volte,
mentre va a visitare il fratello tra una missione segreta e l’altra. È un
personaggio elusivo, e compare molto poco. Lo spazio è tutto per Philip e la
sua evoluzione. Pur non disponendo di scaltrezza e astuzia paragonabili a
quelle di Waleran Bigod, il vescovo di Kingsbridge unicamente interessato a
salire la scala gerarchica, Philip è un uomo determinato, dalle idee chiare e
ben deciso ad ottenere ciò che vuole. Soprattutto perché quello che vuole non è
denaro, potere o considerazione per sé, ma il benessere dell’intera comunità in
cui si trova. E’ un uomo di fede che pone questo benessere, sia spirituale sia
fisico, al di sopra del proprio e solo al di sotto della devozione per Dio. Non
esita a fronteggiare vescovi maneggioni, nobili e nobilastri furbi e meschini
(come la famiglia di William), e per quanto di modi umili, non indietreggia
intimorito di fronte a Re Stefano (l’usurpatore) e nemmeno all’arcivescovo
Henry, suo fratello, che in quel momento incarnavano i massimi poteri dell’Inghilterra
feudale.
Non gli manca una certa astuzia, che gli deriva da un candore di base e
dalla convinzione di riuscire a parlare alla parte buona di qualunque essere
umano, oltre al fatto di conoscere le leve che spingono le creature ad agire e
a servirsene, sempre per poter aiutare qualcuno, raddrizzare un torto,
procurare benessere alla comunità, che s’identifica nei frati del suo priorato,
ma anche nelle persone che abitano il villaggio. Quasi sempre riesce a
ribaltare situazioni disperate, a trovare soluzioni anche rocambolesche. Solo
in un’occasione, dopo aver lottato strenuamente contro William of Hamleigh
(sempre lui) per poter mantenere il mercato settimanale al villaggio, averne
ottenuto il diritto, e assistito alla crudele rappresaglia di quest’ultimo
contro di lui e soprattutto Aliena, Philip sembra perdere il desiderio di
continuare ad andare avanti. Comincia a chiedersi perché i suoi sacrifici si
tramutano in nulla, e i suoi sforzi si disperdono nel vento, e non ha voglia di
rialzarsi dopo la caduta metaforica. È un momento di depressione di stanchezza,
ed è particolarmente convincente il modo in cui Ken Follett lo descrive. Mi ha
ricordato le occasioni in cui anch’io mi sono sentita in quel modo, svuotata di
qualunque spinta a fare qualunque cosa, per il timore di vederla trasformarsi
in polvere inutile. Questo momento di sbandamento non dura molto, però. Philip
ritorna a credere e a vivere attivamente, proprio grazie ad una protagonista
del romanzo, quella silenziosa ma a tratti ingombrante, di cui si vedono solo
alcuni accenni: la Cattedrale. È Tom lo scalpellino che ne parla, quando ancora
essa esiste solo nei suoi occhi. È lei la spinta che lo muove, che lo fa
progredire nelle sue conoscenze, lo spinge a disegnarla, a trovare nuovi modi di
impilare le pietre, distribuire i pesi. Poco per volta si fa pietra, legno,
abside, navate, non senza ostacoli, distruzioni, problemi di costruzione da
risolvere. Contagia con la sua presenza virtuale molti dei personaggi: oltre a
Tom, è Philip che la guarda convinto, ammirato della sua capacità di dimostrare
la sua fede in Dio. Toccherà poi a Jack Jackson, il bizzarro figlio di Ellen,
innamorarsi di lei e darle sempre più corpo, creare soluzioni architettoniche
nuove, scolpire la pietra per adornarla, per darle statue. Alla fine, dopo un
crollo rovinoso dovuto a imperizia e a piccole beghe meschine da parte dei
muratori che lavorano alla Cattedrale, si erge bella e forte, testimone di
tutta la determinazione, la fatica, la tenacia e la volontà di ricominciare dei
personaggi principali che l’hanno voluta, ma anche di tutto il villaggio di
contadini, mugnai, fornai, lanieri muti che sullo sfondo l’hanno ammirata,
guardata con perplessità, ignorata, trascurata.
Sai perché avevo cominciato a leggerlo? (Prometto: lo riprenderò, Anti deve “solo” ricordare di mettere il tomo in borsa…)
RispondiEliminaRicordavo un dettaglio del medioevo. Meglio, dell’arte in questo periodo: non contava il singolo artista, ma l’impegno collettivo che animava piccoli uomini a spingere verso il cielo costruzioni immense, in nome di un ideale... una richiesta continua, una sete d’infinito mai placata, al di là degli intrighi e delle ambizioni temporali.
La protagonista vera è ancora lì e parla a chi desidera ascoltarla.
Infatti: è la protagonista silenziosa che merita davvero la lettura di questo libro (fai bene a riprenderlo). Lei non parla molto, ma la sua presenza si fa sentire e ogni volta si va a cercarla, se è cresciuta, se ha "detto" ancora qualcosa.
EliminaE hai ragione, all'epoca era l'umanità corale che parlava, e i singoli che pensavano di essere più importanti non erano così tanti.