giovedì 19 luglio 2012

Fai bei sogni – Una vita in punta di piedi


Confesso che ho letto il libro con un senso crescente di straniamento. Non saprei nemmeno spiegare, per quale motivo strano, ritenevo che Massimo Gramellini non stesse parlando di se stesso, ma stesse raccontando un romanzo in terza persona. Gli eventi, descritti, quindi, una madre che muore giovane lasciando un figlio bambino, non potevano essere pezzi di vita sua, ma un espediente letterario. Ripeto, non so proprio spiegarmi perché escludessi a priori che la vita dell’autore fosse libera da dolori e angosce; un personaggio famoso, capace di scrivere come lui, doveva forse essere al riparo da qualunque avvenimento doloroso? Il dolore, invece, non si è tenuto minimamente lontano dalla sua vita, tutt’altro. Si è presentato nel modo peggiore, camuffato sotto tutta una serie di scuse e giustificazioni degli adulti, preoccupati che il bambino Massimo dovesse soffrire troppo, di fronte alla verità spietata, ovvero che la madre stava morendo. E capita in modo strano, ovattato. Si sente subito, nelle parole di Gramellini che parla da bambino di quello che stava vedendo con i suoi occhi “bambini”, che c’è qualcosa di non detto, di nascosto solo parzialmente, come un’ombra goffa e pesante nascosta dietro una tenda semitrasparente. Ed è una sensazione che accompagna per tutto il libro,finché quella tenda non viene aperta.  E non dirò mai cos'era l’ombra, poiché è troppo importante fare la sua conoscenza, prima di ascoltare il suo urlo quando viene scoperta. Un urlo che è già stato sentito, ma non ascoltato, per almeno quarant’anni, per la durata della vita di Gramellini.
Con il suo stile pieno di corpo, l’autore descrive una vita non vissuta, non ascoltata, non sfogata, condotta di malavoglia “in punta di piedi”. E’ così che la chiama, una vita vissuta con andatura da elfo, in punta di piedi per non creare massa, non lasciare impronte, con gli occhi rivolti al cielo in cerca di un segno, di una risposta, di una conferma, di un ritorno che non può avvenire. Non sembra che niente possa appassionarlo più di tanto, o non in maniera durevole. La scuola, le amicizie, gli studi, i lavori sono avvenimenti a margine, in punta di piedi. C’è un sapore amarissimo, mentre descrive gli anni in cui rifiuta di parlare di sua madre, quando nega persino di essere orfano poiché si vergogna, quando racconta dei rapporti molto faticosi con gli esseri umani che lo circondano: il padre, la tata, altre donne, le madri dei suoi compagni di scuola, i compagni di scuola stessi. C’è amarezza, rabbia, risentimento e quella fastidiosa sensazione di avere un marchio addosso, piovuto dall’alto non si sa per quale motivo, o da quale mandante, che porta a sentirsi irrimediabilmente esclusi, separati, diversi. E con la sensazione feroce e praticamente impossibile da combattere,che sia una punizione decisa da qualcuno in alto, per chissà quale motivo. Nel bambino Massimo che aveva tante domande e tanti dubbi dopo la morte di sua madre, ho rivisto una figura lontana della mia infanzia, una persona che perse la madre nello stesso modo, da bambino, e a causa di un tumore. Eravamo compagni di giochi in cortile, un po’ turbolenti e di malavoglia come ogni tanto capita, e da un momento all’altro lo vidi cambiare completamente, verso se stesso e verso gli altri. Si sentiva “in prigione”. Si era messo “in prigione”. E più questa sensazione lo avvolgeva, più cercava un contatto con gli altri, che faceva fatica ad allacciarsi. Per un’altra di quelle misteriose ragioni nella vita, più cerchi disperatamente di ottenere una cosa, di qualunque cosa si tratti, meno riesci ad avvicinarti. Ho rivisto anche me, nel senso di esclusione, per quanto io non sia rimasta orfana da bambina. Ma quel senso di auto-esclusione punitiva, mi è molto familiare. E’ un sapore forte e amaro da fermare il respiro.

4 commenti:

  1. Il “problema” del dolore, in fondo, è sempre lo stesso: non nasciamo col manuale d’istruzioni per conviverci. Sì, perché il dolore ci accompagna ed ognuno di noi è (non è un lapsus) una risposta o una soluzione. Ognuno a modo proprio. A ben pensarci, a volte la nostra soluzione è terribile: ci imprigioniamo in quel dolore - da soli.
    Scherzo: è una perla di saggezza?

    (Piccola nota: il libro che sto leggendo è “The restorer”, la signora dei cimiteri è il sottotitolo e la protagonista oltre a restaurare cimiteri, vede i fantasmi. Niente lupi mannari, finora, ma certe anime in pena sono un po’ vampire: si nutrono della vita della persona a cui sono ancora legate. Lo comprai assieme ad Anti, decisamente sbuffante; mi ha visto comprare i “mallopponi in decomposizione” di K. Reichs ed un altro titolo promettente “La signora dei funerali“ di M. Wickham. Non mi sorprenderei se uno di questi giorni mi dicesse “ti aspetto alla cassa, ma non voglio farmi vedere con te che prendi quella roba!”)

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    1. Niente manuale di istruzioni, no. Quello dobbiamo farcelo da soli, man mano. La fregatura è che tendiamo a ripetere le pagine...senza risolvere dei problemi, ma ricascandoci. Alla fine della vita, si è imparato a vivere: non è un controsenso?
      E' interessante la Signora dei Cimiteri e la sua visione dei fantasmi.
      Per quanto riguarda la Signora dei Funerali, è di tutt'altro genere. Madeleine Wickham è il vero nome di Sophie Kinsella, l'autrice di quella serie di libri "I love shopping..." completamente fuori di testa e irritanti. Qui è più seria, ma nemmeno troppo. La protagonista è un drago del trasformismo...ma non ti dico altro. Lo sai a chi mi fa pensare? A Roxana di Defoe. Certe cose non sono mai cambiate per le donne, in un certo senso. E' buffo come romanzi leggeri, come questo che hai citato tu e quello che mi hai regalato sulle Streghe, che presto comparirà su questi schermi, mi facciano pensare a libri e opere ben più corpose. :-)
      Potenza del furore dei libri...

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  2. Ho elaborato una teoria… quando impari a vivere, impari anche a morire. Perché il confine tra vita e morte non è come di solito si pensa. E posso dire di averlo imparato sulla mia pelle: non so dove fossi quel fatidico 9 (o era il 10?) gennaio 2000 ed i giorni successivi. Per i medici ero clinicamente morta. Eppure questo gnomo sputasentenze che ti rifila perle di saggezza è di nuovo qua. Per questo dico che ogni essere umano è una risposta. Ogni vita lo è. E se “quello” è il compimento di una vita, vale la pena soffrire, sbagliare strada, tornare indietro, fermarsi e ricominciare. Anche ricascare, sì. E ricascheremmo anche avessimo il manuale!

    Sì, sapevo dell’alias della Kinsella. Non ho letto i vari “shopping”, ma l’idea della trasformista vedova ed adescatrice mi solleticava.
    Brutta notizia: quella dei cimiteri è una trilogia (mi ha imbrogliato, uffa!), per ora ho solo il primo e te lo presterò volentieri.
    Ed è vero che anche i romanzi più ameni possono rimandare ad altre opere: potenza del furore E dei libri!

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    1. ...se ti interessano gli "shopping" io li ho collezionati tutti. La protagonista mi piaceva troppo, anche se qualche volta avrei voluto strozzarla. Tutto sommato, era una creativa alla massima potenza.

      Ecco, se impariamo a vivere praticamente quando stiamo per morire, perché poi non ci ricordiamo niente, nella vita dopo? Farsi un appunto?

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