Si avvicina
la fine del libro, e anche quello della resa dei conti. Per tutte le pagine,
c’è un senso di attesa sotto, qualcosa che continua a mandare segnali perché
c’è qualcosa che non va. Il Massimo adulto viene a conoscenza di com’è morta
sua madre, davvero. Non scendo nei dettagli, anzi, li evito decisamente. Quando
riusciamo a trovare il tassello mancante in una situazione nella nostra vita (e
se siamo particolarmente bravi/fortunati/tenaci/coraggiosi/pazzi quello che
risolve l’intera vita), improvvisamente tutto quadra e s’infila al proprio posto,
come nei giochi di bambini dove inserire e indovinare la forma geometrica
giusta. Quasi per magia. Ogni cosa che guardiamo, pensiamo, via! Vola al suo
posto, dopo mesi, anni di sforzi apparentemente inutili. E’ quello che accade a Massimo: non
solo eventi della sua infanzia acquistano un altro significato, ma anche il
rapporto con il genitore rimasto, e poi andato via, suo padre. Tutte le azioni
del padre acquistano un altro spessore, un altro significato, migliore e più
completo. La freddezza e distanza apparenti diventano uno schermo che ha tenuto
lontani padre e figlio per tutti gli anni dopo la morte della madre, come in
uno spartiacque invalicabile. Ma è davvero invalicabile, ogni muro, ogni limite
che tiriamo su, basandoci molto spesso sulla nostra interpretazione dei visi e
degli umori altrui, sulle nostre proiezioni dettate dalle nostre menti che non
tacciono mai, e mai prendono in considerazione l’alternativa più positiva in un
ventaglio di ipotesi?
“Succede a noi che ospitiamo Belfagor nello stomaco. Pur di non fare i conti con la realtà preferiamo convivere con la finzione, spacciando per autentiche le ricostruzioni ritoccate o distorte su cui basiamo la nostra visione del mondo.” (Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi 2012, pag. 196) Belfagor, l’impersonificazione dell’ansia,del giudizio, della paura e di tutto quel filtro negativo che ci avvolge a sudario quando ci rifiutiamo di vivere. Ciascuno ne ha uno, e lo chiama con nomi diversi. Chi è più coraggioso e più tenace, con due schiaffoni lo rispedisce fuori dalla porta e va avanti ad occhi ben aperti e mani ben allenate per ripetere il messaggio, casomai non fosse stato recepito. E della vita non si perde nulla, guardando bene tutto con forza. Altri, si lasciano avvolgere e stritolare, perché Belfagor è un asso nel proporre la soluzione più facile e meno dolorosa (e il dolore fa male...perché andarselo a cercare a tutti i costi?): smettere di vedere persone, perché sono cattive, sparlano, non ti capiscono. Smettere di uscire perché non c’è poi così tanto d’interessante, e poi ci sono pericoli. Smettere di approfondire le relazioni, perché tanto sono tutti uguali. E allora ci rivolgiamo a Photoshop, per ritoccare le nostre emozioni e le situazioni. “L’intuizione ci rivela di continuo chi siamo. Ma restiamo insensibili alla voce degli dei, coprendola con il ticchettio dei pensieri e il frastuono delle emozioni. Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi.” (ibidem) Perché? Perché essere completamente vivi ci fa così tanta paura, da dover reprimere a tutti i costi la nostra voce naturale?
Ho aperto il libro 24 ore fa, tre ore dopo l'ho finito. Un'altra ora passata a cercare di prender sonno. Un pugno allo stomaco e una carenza in viso.
RispondiEliminaIn effetti, è dura lasciarlo, una volta iniziato. E ferma il respiro nello stomaco sul serio, al pensiero di quel dolore che si accanisce.
EliminaEssere completamente vivi fa male. Questa frase mi ha colpito. Veramente tutti post sul libro, tanto che ho deciso di leggerlo dopo le vacanze, periodo mai piacevole per me. Nel guazzabuglio spunta un pensiero: un momento, io non seguo il filone di pensiero “siamo nati per soffrire”! Il dolore c’è. Credo faccia ormai parte dell’esistenza umana. Ognuno poi reagisce a modo suo. Oltre a vivere alla giornata, ho imparato a vivere con grandi sogni e la consapevolezza che non sempre i sogni si avverano, a prescindere dalle scelte e dal mio impegno.
RispondiEliminaNon ricordo più dove l’ho letto o sentito, mi viene in mente: “se la vita ti morde, tu mordila più forte” o qualcosa del genere.
Nemmeno io seguo il filone "siamo nati per soffrire". La sofferenza insegna e può essere trasformata, facendo attenzione a non farsene assorbire perché spesso diventa subdola. Devo dire che questa frase costituisce uno dei perni del libro. La sensazione di qualcosa che manchi, che deve arrivare, si condensa poi in quelle poche parole. Tuttavia, perché fa male? Non sono convinta che debba essere proprio così. Forse non ci ricordiamo che siamo esseri forti, e non solo fragili canne al vento. Se ci soffermassimo di più a pensare al coraggio che dimostriamo, spesso in piccoli gesti e decisioni apparentemente banali, forse non considereremmo la vita piena come vita che fa male. E forse saremmo più disposti a viverla.
Elimina"Soffri per quel che c'è da soffrire, gioisci per quel che c'è da gioire. Considera entrambe, sofferenza e gioia, come parte della vita..." (Nichiren Daishonin, Felicità in questo mondo)