L’atmosfera è pesante, tetra e senza alcuna speranza, da
subito. Un coro di donne, che sembra uscito direttamente dalle tragedie greche,
fa sentire subito la disperazione di un giorno di dicembre del 1170, quando
tutta la vita sembra essersi fermata per l’inverno. Sono preoccupate per se
stesse, per gli oscuri presagi che leggono nella natura intorno, per
l’Arcivescovo e la difficilissima posizione in cui si è messo, ostacolando la
volontà del re. Alcuni preti entrano dopo di loro, e la conversazione è sullo stesso
tenore: nessuno di loro vede la possibilità di un esito positivo della vicenda.
Quando entra Thomas à Becket, non ci sono grandi cambiamenti: lo stesso
Arcivescovo si sente segnato, sente che il suo tempo è contato e che non può e
non vuole farci nulla. La prima volta che lessi il libro, al liceo, avevo
soggezione di questa atmosfera tragica, di tono così elevato. Thomas à Becket,
fin dall’inizio, sa che deve morire, che non può non morire, e accetta la sua
fine inevitabile con coraggio sereno. Ora, a distanza di anni e con una visione
almeno un po’ più ampia e sperimentata, sarei portata a pensare che l’arcivescovo
si è arreso troppo presto al suo ruolo di martire.
Lo ha accettato, forse voluto anche con brama. Ed è una lettura che all’epoca mi era sfuggita, ma il comportamento del Becket riecheggia quello di qualcun altro, che accettò di immolarsi in cambio dell’umanità. Ed è un parallelo che le note critiche al fondo dell’edizione cui mi sono riferita (T.S. Eliot, Assassinio nella cattedrale, Testo inglese a fronte, Tascabili Bompiani, 1986) evidenziano: Thomas à Becket si pone in urto con l’autorità, riconosce di non poterne fare a meno, perché la sua coscienza e i suoi valori non gli permettono di piegarsi, e riconosce che l’unico modo per chiudere la vicenda è la sua morte. Più di 900 anni prima era capitato qualcosa di simile (prendendo in considerazione il 1170, l’anno dei fatti in esame), per quanto le implicazioni e gli attori in scena fossero diversi, e anche più complessi. Eliot lo fa capire bene attraverso il parallelo delle tentazioni.Anche l’arcivescovo di Canterbury è costretto a guardare in faccia i suoi demoni interiori, che si concretizzano in tre Tentatori, che entrano in scena l’uno dopo l’altro. Tentano di convincerlo a desistere, o a cambiare alleanze, prospettandogli un altro destino, altre glorie, ricordandogli che, in fondo, anche lui non è sempre stato santo e volto al bene della Chiesa. Il quarto tentatore, però, quasi inaspettato, arriva dopo tutti gli altri ed è il più mellifluo e insinuante: è la tentazione del martirio, visto come POTERE. Il martirio dà potere, perché trascende il tempo e le cose umane, e viene ricordato nel tempo. E’ più potente di qualunque re, imperatore, e dura molto più a lungo. Thomas vacilla. Il risvolto dei suoi pensieri e delle sue intenzioni di opporsi al re è tinto di questa segreta aspirazione, del tutto personale: il martirio come glorificazione del proprio potere. Eliot interrompe bruscamente il discorso tra questo tentatore e l’arcivescovo, ma conosciamo come sarà l’epilogo. Thomas affronta i zelanti Cavalieri che vogliono difendere l’autorità reale, resiste ai tentativi dei suoi stessi preti di salvarlo, finché non viene ucciso. E i Cavalieri, in modo del tutto inaspettato in questo libro dall’andamento tragico, si rivolgono al pubblico spiegando i motivi del loro gesto, uno dopo l’altro. Non cercano approvazione: sembra più simile al commento astratto e lontano che potrebbe fare uno storico che guarda le loro azioni da lontano.
Lo ha accettato, forse voluto anche con brama. Ed è una lettura che all’epoca mi era sfuggita, ma il comportamento del Becket riecheggia quello di qualcun altro, che accettò di immolarsi in cambio dell’umanità. Ed è un parallelo che le note critiche al fondo dell’edizione cui mi sono riferita (T.S. Eliot, Assassinio nella cattedrale, Testo inglese a fronte, Tascabili Bompiani, 1986) evidenziano: Thomas à Becket si pone in urto con l’autorità, riconosce di non poterne fare a meno, perché la sua coscienza e i suoi valori non gli permettono di piegarsi, e riconosce che l’unico modo per chiudere la vicenda è la sua morte. Più di 900 anni prima era capitato qualcosa di simile (prendendo in considerazione il 1170, l’anno dei fatti in esame), per quanto le implicazioni e gli attori in scena fossero diversi, e anche più complessi. Eliot lo fa capire bene attraverso il parallelo delle tentazioni.Anche l’arcivescovo di Canterbury è costretto a guardare in faccia i suoi demoni interiori, che si concretizzano in tre Tentatori, che entrano in scena l’uno dopo l’altro. Tentano di convincerlo a desistere, o a cambiare alleanze, prospettandogli un altro destino, altre glorie, ricordandogli che, in fondo, anche lui non è sempre stato santo e volto al bene della Chiesa. Il quarto tentatore, però, quasi inaspettato, arriva dopo tutti gli altri ed è il più mellifluo e insinuante: è la tentazione del martirio, visto come POTERE. Il martirio dà potere, perché trascende il tempo e le cose umane, e viene ricordato nel tempo. E’ più potente di qualunque re, imperatore, e dura molto più a lungo. Thomas vacilla. Il risvolto dei suoi pensieri e delle sue intenzioni di opporsi al re è tinto di questa segreta aspirazione, del tutto personale: il martirio come glorificazione del proprio potere. Eliot interrompe bruscamente il discorso tra questo tentatore e l’arcivescovo, ma conosciamo come sarà l’epilogo. Thomas affronta i zelanti Cavalieri che vogliono difendere l’autorità reale, resiste ai tentativi dei suoi stessi preti di salvarlo, finché non viene ucciso. E i Cavalieri, in modo del tutto inaspettato in questo libro dall’andamento tragico, si rivolgono al pubblico spiegando i motivi del loro gesto, uno dopo l’altro. Non cercano approvazione: sembra più simile al commento astratto e lontano che potrebbe fare uno storico che guarda le loro azioni da lontano.
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