Oggi è lunedì, e ho voglia di scherzare. A questo, aggiungo
che leggere due libri di fila con persone che cucinano, per quanto da punti di
vista opposti, mi ha fatto venire in mente una domanda. Che è rimasta lì senza
risposta, e che mi ha fatto sganasciare dalle risate. E il risultato è questo
post per nulla serio.
Andiamo con ordine.
A breve distanza l’uno dall’altro, ho letto Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi di Torino e Gattoterapia.
Apparentemente, non c’è un legame a cercarlo con la lampada di Diogene, a parte
l’azzurro delle copertine. Il primo è un “giallo d’uovo” su un killer di cuochi
(la definizione giallo d’uovo è dell’autore, Luca Iaccarino, e ancora mi fa
sganasciare), mentre l’altro è la storia di un cambio radicale di vita di un
essere umano che imita la noncuranza felina.
Il gancio comune, però, è la cucina. Sia Iaccarino nella
parte di se stesso (nel libro è lui che indaga, ricordate), sia Lorenzo amano
cucinare. È un’attività che li rilassa. E i paragrafi che li descrivono mentre
fanno soffriggere cipolle o aggiungono, mescolano ingredienti, o controllano la
doratura degli infornati, fanno venire davvero l’acquolina in bocca. Almeno, io
avrei voluto essere lì, in quelle cucine, ad assistere alle loro creazioni, per
guardarle con i loro occhi. È diverso dal cucinare in prima persona.
Soprattutto se quella persona sono io, che cucina per necessità. Mi piace
cucinare, ma non ho il talento di accostare elementi per creare sapori, che a
loro volta causeranno sensazioni, apprezzamenti, esperienze.
Ho ripensato ai libri che ho letto dove la cucina era
presente. I due libri di Muriel Barbery, per esempio. Come l’acqua per il
cioccolato, di Laura Esquivel. Kitchen, di Banana Yoshimoto. Gli autori erano
in grado di far venire l’acquolina in bocca descrivendo i sapori, le cotture,
le sensazioni.
Wow, grandiosi. Davvero.
Ma questi sono autori che scrivono romanzi. Romanzi che sono
ambientati anche in cucina. Trame che coinvolgono cuochi o amanti del cucinare,
che sono in grado di destare sensazioni con le loro descrizioni. È il loro
lavoro.
E… che diciamo dei libri di cucina?
Io, però, mi sono concentrata sul sottogenere dei ricettari,
diciamo così. Come si scrive, un libro di cucina? Come basa il suo successo?
Solo sulla bontà e la fattibilità delle ricette? Deve essere scritto bene, o in
modo allettante, per far venire voglia di comprarlo?
Sono andata a controllare cos’avevo in casa, pensando alle
riviste che ho collezionato nel corso di qualche anno e che in cucina si sono
rivelate un ottimo supporto. Sono costruite soprattutto sulle foto, tutte
luccicanti e luminose in cui ritrarre scalogni in perfetta forma, peperoni con
tonalità di rosso sgargiante a rivaleggiare con la sfumatura Ferrari, insalate
ed erbette dei colori degli smeraldi puri. Pentole e padelle di design, in
primo piano su fornelli e ambienti altrettanto di design.
Cracco, spostati,
devo preparare il soffritto.
E poi ho scovato una serie di libri. Il serissimo Nuovo
Ricettario Carli, con la sua adorabile impaginazione anni ’40. Probabilmente
anche prima, l’azienda dei Fratelli Carli è antichissima. Doppio segnalibro di
due colori, carta bianchissima e resistente, copertina in cartone liscia e
patinata, che invita ad essere aperta, ricette numerate e illustrate da un
pittore. Una citazione di Schiller in copertina. Ambiente elevato, serio,
compreso nel suo ruolo. Leggendo le pagine, respiro un’aria diversa, entro in
una cucina diversa, sento persino un italiano diverso. L’autore, o gli autori,
stanno insegnando alimentazione, non la “semplice” arte del cucinare. I cibi
sono suddivisi per categorie e di ciascuno si dà una descrizione anche
scientifica. Qui si insegna come alternare proteine, verdure, carboidrati.
Salto di regione, in un altrettanto serio Codice della
cucina piemontese, di Jole Richelmy. Copertina rossa rigida (il rosso fa venire
fame), una prefazione seria e d’antan, nella lingua. Si chiariscono gli intenti
che hanno portato l’autrice a pescare nei suoi ricordi e in quelli dei suoi
amici, parenti e conoscenti per compilare un vero e proprio Codice, di cui
sarebbero orgogliosi schiere e generazioni di monaci amanuensi. La raccolta e
la compilazione sono attività serie: raccolgono la memoria di un luogo, di un’epoca,
di un popolo. Le ricette sono raccontate brevemente, occupano ciascuna una
pagina in cui il titolo è messo in evidenza da una fascetta rossa.
Impaginazione severa, svelta e funzionale. Un tratto del carattere piemontese,
direi. Lo consiglio per chi sta cercando ricette molto territoriali, anche
antiche, per chi ha smarrito sapori e profumi di un’altra epoca, o di chi
vorrebbe rievocarli.
Passo in rassegna due libri alti e smizi: un Corso di cucina
cinese e un Riso e risotti. Taglio moderno, soprattutto fotografico e
illustrativo. Forse un po’ asettico nelle parole, tutte corrette, ma un po’…
sulle loro. Ti stanno spiegando in cos’è diversa la cucina cinese dalla nostra
e perché dovresti usare un wok, ma più di tanto non si sbilanciano. Anche con i
risotti, per quanto sia un autore diverso… l’occhio è attratto dalle foto e
dalle luci sapienti su melanzane, funghi e uova, ma non si avverte il solletico
che va direttamente allo stomaco e lo mette in azione.
Tra le mani mi scivola un libriccino, poco meno di un A5. So
che farei rabbrividire un tipografo o un impaginatore, se leggesse queste
parole, ma è la prima associazione di idee che mi viene facile per descriverla.
E’ dedicato alle Delizie al forno, una raccolta di “oltre stuzzicanti ricette”
(citazione), dedicate a dolci, biscotti, preparazioni lievitate. Carta patinata,
foto convenzionali e qualche imprecisione nelle quantità degli ingredienti… non
c’è molta volontà didattica, qui, ma desiderio di essere pratici. Formato
piccolo, facilmente trasportabile, compatto e pesante da poter restare anche in
piedi aperto, se lo spazio di manovra è ridotto.
Altro libro (ma quanti ne ho? Davvero, la storia dell’accumulo
dei libri ogni tanto mi prende la mano…) e ritorno al Piemonte, in una realtà
molto presente e pure contestata: La Stampa. Le ricette di Saper Spendere, una
rubrica che va avanti da 49 anni sul giornale, in cui i lettori e chef
propongono le loro ricette, piccoli e grandi tesori di famiglia o di scoperta e
sperimentazione tutta personale. Grande creazione corale, ogni ricetta un
contributo di un lettore. Si apre il libro e si entra a casa propria, in
cucina, anche se la si vede per la prima volta. Ed è un piacere tutto gentile
quello di ricreare la ricetta delle conserve della signora Bianca o seguire il
consiglio per recuperare le rape del giorno prima da parte di uno chef di
ristorante.
E poi. E poi, arriva lui. Pellegrino Artusi. Per essere
precisi, La scienza in cucina – L’arte di mangiar bene, Manuale pratico per le
famiglie, compilato da Pellegrino Artusi. Una capsula del tempo. Edito da
Salani (quello, sì), 1937. Un’eredità. Che mi ha sempre messo un po’ in
soggezione… l’Artusi in cucina da me. Non son degna. E’ un altro mondo, un’altra
dimensione. Si avvicina al Ricettario Carli, per la serietà e l’intento di
educare, ma lo fa con il piglio dell’artista, per quanto sia “scienza” il
termine che spicca nel titolo. E’ l’approccio di chi crea e poi racconta della
sua creazione come farebbe un genitore di un figlio, piuttosto che un semplice…
compilatore.
Riporto i libri al loro posto, in un armadio adiacente alla
cucina. Quello che doveva essere una semplice riflessione anche scherzosa,
sicuramente poco utile ai destini e alle sorti del mondo, è diventata l’occasione
di un viaggio in uno spazio poco considerato e dato per scontato.
Chissà, magari ne farò un altro. La cucina nei libri è
vasta, ancora poco esplorata qui…
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