lunedì 23 luglio 2012

Fai bei sogni – Il grande enigma, il grande gioco, la grande illusione

Si avvicina la fine del libro, e anche quello della resa dei conti. Per tutte le pagine, c’è un senso di attesa sotto, qualcosa che continua a mandare segnali perché c’è qualcosa che non va. Il Massimo adulto viene a conoscenza di com’è morta sua madre, davvero. Non scendo nei dettagli, anzi, li evito decisamente. Quando riusciamo a trovare il tassello mancante in una situazione nella nostra vita (e se siamo particolarmente bravi/fortunati/tenaci/coraggiosi/pazzi quello che risolve l’intera vita), improvvisamente tutto quadra e s’infila al proprio posto, come nei giochi di bambini dove inserire e indovinare la forma geometrica giusta. Quasi per magia. Ogni cosa che guardiamo, pensiamo, via! Vola al suo posto, dopo mesi, anni di sforzi apparentemente inutili. E’ quello che accade a Massimo: non solo eventi della sua infanzia acquistano un altro significato, ma anche il rapporto con il genitore rimasto, e poi andato via, suo padre. Tutte le azioni del padre acquistano un altro spessore, un altro significato, migliore e più completo. La freddezza e distanza apparenti diventano uno schermo che ha tenuto lontani padre e figlio per tutti gli anni dopo la morte della madre, come in uno spartiacque invalicabile. Ma è davvero invalicabile, ogni muro, ogni limite che tiriamo su, basandoci molto spesso sulla nostra interpretazione dei visi e degli umori altrui, sulle nostre proiezioni dettate dalle nostre menti che non tacciono mai, e mai prendono in considerazione l’alternativa più positiva in un ventaglio di ipotesi?  

giovedì 19 luglio 2012

Fai bei sogni – Una vita in punta di piedi


Confesso che ho letto il libro con un senso crescente di straniamento. Non saprei nemmeno spiegare, per quale motivo strano, ritenevo che Massimo Gramellini non stesse parlando di se stesso, ma stesse raccontando un romanzo in terza persona. Gli eventi, descritti, quindi, una madre che muore giovane lasciando un figlio bambino, non potevano essere pezzi di vita sua, ma un espediente letterario. Ripeto, non so proprio spiegarmi perché escludessi a priori che la vita dell’autore fosse libera da dolori e angosce; un personaggio famoso, capace di scrivere come lui, doveva forse essere al riparo da qualunque avvenimento doloroso? Il dolore, invece, non si è tenuto minimamente lontano dalla sua vita, tutt’altro. Si è presentato nel modo peggiore, camuffato sotto tutta una serie di scuse e giustificazioni degli adulti, preoccupati che il bambino Massimo dovesse soffrire troppo, di fronte alla verità spietata, ovvero che la madre stava morendo. E capita in modo strano, ovattato. Si sente subito, nelle parole di Gramellini che parla da bambino di quello che stava vedendo con i suoi occhi “bambini”, che c’è qualcosa di non detto, di nascosto solo parzialmente, come un’ombra goffa e pesante nascosta dietro una tenda semitrasparente. Ed è una sensazione che accompagna per tutto il libro,finché quella tenda non viene aperta.  E non dirò mai cos'era l’ombra, poiché è troppo importante fare la sua conoscenza, prima di ascoltare il suo urlo quando viene scoperta. Un urlo che è già stato sentito, ma non ascoltato, per almeno quarant’anni, per la durata della vita di Gramellini.

lunedì 16 luglio 2012

Fai bei sogni – L'eco del dolore altrui


Questo libro è entrato dalla porta di servizio. Nel senso che non è rimasto attaccato alle mie mani, ma a quelle di mio marito, che lo ha scelto d’istinto. Io, naturalmente, mi sono ben guardata dal muovere qualunque tipo di obiezione. La mia missione principale, nella vita, è quella di dare asilo ai libri, salvandoli dalla solitudine delle librerie. Non è da trascurare il fatto che a me piace moltissimo lo stile di Massimo Gramellini: ogni tanto il suo nome si sovrappone, nella mia mente, a quello del giornale di Torino per cui scrive, La Stampa. Difficile prescindere da lui, se vivi in questa città e leggi quel giornale. Spesso non leggo nemmeno i titoloni in alto degli articoli più in alto, quando compro La Stampa fisica, ma vado ad accertarmi che ci sia il suo “Buongiorno” e a leggere il relativo titolo. Poi acquisto. Allo stesso modo, nella versione online del giornale vado a guardare la sua rubrica, anche facendo veri e propri camel trophy per trovarla, perché non è immediatamente visibile, come nella sua controparte di carta. Misteri da webmaster. Scoprii l’esistenza e lo stile di Massimo Gramellini all’epoca di Specchio, il supplemento del sabato, con la sua rubrica, Cuori allo Specchio. All’inizio mi era quasi completamente sfuggita: l’avevano messa in ultima pagina, che è il luogo che scarto quasi a priori. Mi sono accorta presto, però, che il detto “dulcis in fundo” qui è particolarmente adatto, per cui l’ultima pagina per me divenne prima: adottai la lettura alla “giapponese” per Specchio…J Quello che mi colpì quasi subito del modo di scrivere di Gramellini era il suo stile molto vivo, di carne.

giovedì 12 luglio 2012

Assassinio nella Cattedrale – La tentazione


L’atmosfera è pesante, tetra e senza alcuna speranza, da subito. Un coro di donne, che sembra uscito direttamente dalle tragedie greche, fa sentire subito la disperazione di un giorno di dicembre del 1170, quando tutta la vita sembra essersi fermata per l’inverno. Sono preoccupate per se stesse, per gli oscuri presagi che leggono nella natura intorno, per l’Arcivescovo e la difficilissima posizione in cui si è messo, ostacolando la volontà del re. Alcuni preti entrano dopo di loro, e la conversazione è sullo stesso tenore: nessuno di loro vede la possibilità di un esito positivo della vicenda. Quando entra Thomas à Becket, non ci sono grandi cambiamenti: lo stesso Arcivescovo si sente segnato, sente che il suo tempo è contato e che non può e non vuole farci nulla. La prima volta che lessi il libro, al liceo, avevo soggezione di questa atmosfera tragica, di tono così elevato. Thomas à Becket, fin dall’inizio, sa che deve morire, che non può non morire, e accetta la sua fine inevitabile con coraggio sereno. Ora, a distanza di anni e con una visione almeno un po’ più ampia e sperimentata, sarei portata a pensare che l’arcivescovo si è arreso troppo presto al suo ruolo di martire.

mercoledì 4 luglio 2012

Assassinio nella Cattedrale – Un titolo cinematografico

Di nuovo Eliot. Dopo aver finito di leggere Il libro dei gatti tuttofare, ho scoperto che non potevo fare a meno di ritornare all’altro titolo che ho già nominato di Eliot, Assassinio nella Cattedrale. Lo lessi a scuola, e la mia immaginazione piuttosto fervida si era avventata subito sul titolo, dai toni apocalittici, cinematografici, e dai molteplici echi. Non conoscendo ancora Eliot e non sapendo collocarlo nel suo tempo, la prima cosa che pensai fu ad un giallo sul modello di quelli di Agatha Christie. Rimuginando sul titolo, mi sembrava di sentire alcuni echi del genere “Hanno ammazzato compare Turiddu!”, che è l’urlo che chiude Cavalleria Rusticana, di Verga. Ok, sono consapevole che sono due autori, due libri, due situazioni completamente diverse. Ma hanno in comune una matrice tragica che corre al di sotto delle due narrazioni, e che non si può rovesciare. I protagonisti finiranno entrambi uccisi, lo sanno entrambi (Cronaca di una Morte annunciata…sì, questo titolo di un’opera completamente a se stante potrebbe essere il sottotitolo ideale di parecchi libri. Ora si capisce meglio cosa s’intende per “Furore d’aver libri’”? Si inizia a parlare di libri e la frenesia s’impadronisce, spingendo a richiamare alla memoria autori e libri diversi, antitetici, uguali, separati alla nascita) e non lottano per cambiare questo stato di cose. Sanno che è ineluttabile, ed è necessario per loro finire così. Entrambi, Turiddu e Thomas à Becket, l’arcivescovo di Canterbury, hanno offeso un’autorità, che non prevede il perdono per quello che hanno fatto.

domenica 24 giugno 2012

Il libro dei gatti tuttofare – La rassegna


Inizia la rassegna dei tipi di “gatti tuttofare”. Il primo gatto è in contemplazione muta e immobile del suo nome. Gli altri manifestano la loro essenza nei modi più diversi. La vecchia Gatta Gianna Macchiamatta (The Old Gumbie Cat) siede senza far nulla sui gradini di casa per tutto il giorno. Ma quando cala la sera, improvvisamente entra in scena: va in cantina, scova i topi e invece di mangiarseli si occupa della loro educazione: musica, ricamo, lavoro ad uncinetto, cucina. Non è quantomeno bizzarro? Queste prime righe mi hanno riportato alle atmosfere allucinate di Alice nel Paese delle Meraviglie, con il Bianconiglio indaffaratissimo e spaventatissimo dall’enorme ritardo accumulato nello sbrigare le sue faccende. Si prosegue con un Sandogatt (eh, sì…J), che forse suona più divertente alle nostre orecchie latine di Growltiger, l’originale inglese, che è un gatto d’assalto. D’aspetto trasandato perché reduce di mille battaglie, duro e poco piacevole, è il primo a farsi coinvolgere in ogni rissa, se non a iniziarla. E’ mosso da odio e volontà di vendetta verso altre razze di gatti, come i Persiani e i Siamesi, poiché uno di loro ebbe il coraggio di strappargli un orecchio. Il terrore di tutti i porti, il “bullo” per eccellenza, però, viene ripagato della sua vita di violenze e soprusi, nell’ultima lotta che lo vede perdente e costretto a saltare giù da un muretto in acqua. Alla terza poesia, ci si rende conto di come Eliot abbia voluto prendere in giro alcuni tipi umani piuttosto precisi: il Tirammolla (the Rum Tum Tugger) è un gatto perennemente indeciso e “bastian contrario”. Se gli si offre un cibo, ne vuole un altro. Se viene portato fuori casa, rientra in casa. Se viene tenuto in casa, miagola perché vuole uscire. Irritante, eh? “ed è del tutto inutile sgridarlo:/lui alla fine fa/solo quel che gli va/e non c’è nessun modo di cambiarlo.” (T.S.Eliot, Il libro dei gatti tuttofare, pag. 31, Bompiani) Vedo un riflesso abbastanza familiare…

venerdì 22 giugno 2012

Il libro dei gatti tuttofare – Il nome dei gatti


Iniziamo a parlare di nomi, allora. La prima poesia s’intitola proprio così, Il nome dei gatti. Sembra una faccenda da poco…ma è davvero così? Si potrebbe girare la domanda a qualche proprietario, o meglio, a qualche co-inquilino umano del suddetto animale. Eliot non pensa che sia una questione facile, e inizia: “ E’ una faccenda difficile mettere il nome ai gatti;/niente che abbia a vedere, infatti/ con i soliti giochi di fine settimana…”(Eliot, Il libro dei gatti tuttofare, pag. 5, Bompiani). Ed espone poi la sua teoria. I gatti, in realtà, non devono avere solo un nome, ma tre. Uno, domestico, tollerato dall’animale (aggiungo io, questa è una mia impressione), di uso “comune”. Probabilmente per dare all’umano l’illusione di possesso sulla bestiola. Il secondo, è il nome che il gatto considera più appropriato per sé e che lo fa incedere sussiegoso e ben pieno di sé. Almeno, secondo i suoi canoni…Eliot ne dà qualche esempio, come Mustrappola, Tisquass, Ciprincolta (originali inglesi: Munkustrap, Quaxo, Coricopat), “nomi che vanno bene soltanto ad un gatto per volta”. (ibidem) E questi sono i nomi che identificano ogni gatto, esattamente come i nomi umani identificano le persone tra di loro (e noi abbiamo anche i cognomi, per sconfiggere le omonimie), e in qualche modo le modellano.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...