Si avvicina
la fine del libro, e anche quello della resa dei conti. Per tutte le pagine,
c’è un senso di attesa sotto, qualcosa che continua a mandare segnali perché
c’è qualcosa che non va. Il Massimo adulto viene a conoscenza di com’è morta
sua madre, davvero. Non scendo nei dettagli, anzi, li evito decisamente. Quando
riusciamo a trovare il tassello mancante in una situazione nella nostra vita (e
se siamo particolarmente bravi/fortunati/tenaci/coraggiosi/pazzi quello che
risolve l’intera vita), improvvisamente tutto quadra e s’infila al proprio posto,
come nei giochi di bambini dove inserire e indovinare la forma geometrica
giusta. Quasi per magia. Ogni cosa che guardiamo, pensiamo, via! Vola al suo
posto, dopo mesi, anni di sforzi apparentemente inutili. E’ quello che accade a Massimo: non
solo eventi della sua infanzia acquistano un altro significato, ma anche il
rapporto con il genitore rimasto, e poi andato via, suo padre. Tutte le azioni
del padre acquistano un altro spessore, un altro significato, migliore e più
completo. La freddezza e distanza apparenti diventano uno schermo che ha tenuto
lontani padre e figlio per tutti gli anni dopo la morte della madre, come in
uno spartiacque invalicabile. Ma è davvero invalicabile, ogni muro, ogni limite
che tiriamo su, basandoci molto spesso sulla nostra interpretazione dei visi e
degli umori altrui, sulle nostre proiezioni dettate dalle nostre menti che non
tacciono mai, e mai prendono in considerazione l’alternativa più positiva in un
ventaglio di ipotesi?
lunedì 23 luglio 2012
giovedì 19 luglio 2012
Fai bei sogni – Una vita in punta di piedi
Confesso che ho letto il libro con un senso crescente di
straniamento. Non saprei nemmeno spiegare, per quale motivo strano, ritenevo
che Massimo Gramellini non stesse parlando di se stesso, ma stesse raccontando un
romanzo in terza persona. Gli eventi, descritti, quindi, una madre che muore
giovane lasciando un figlio bambino, non potevano essere pezzi di vita sua, ma
un espediente letterario. Ripeto, non so proprio spiegarmi perché escludessi a
priori che la vita dell’autore fosse libera da dolori e angosce; un personaggio
famoso, capace di scrivere come lui, doveva forse essere al riparo da qualunque
avvenimento doloroso? Il dolore, invece, non si è tenuto minimamente lontano
dalla sua vita, tutt’altro. Si è presentato nel modo peggiore, camuffato sotto
tutta una serie di scuse e giustificazioni degli adulti, preoccupati che il
bambino Massimo dovesse soffrire troppo, di fronte alla verità spietata, ovvero
che la madre stava morendo. E capita in modo strano, ovattato. Si sente subito,
nelle parole di Gramellini che parla da bambino di quello che stava vedendo con
i suoi occhi “bambini”, che c’è qualcosa di non detto, di nascosto solo
parzialmente, come un’ombra goffa e pesante nascosta dietro una tenda
semitrasparente. Ed è una sensazione che accompagna per tutto il libro,finché
quella tenda non viene aperta. E non
dirò mai cos'era l’ombra, poiché è troppo importante fare la sua conoscenza,
prima di ascoltare il suo urlo quando viene scoperta. Un urlo che è già stato
sentito, ma non ascoltato, per almeno quarant’anni, per la durata della vita di
Gramellini.
lunedì 16 luglio 2012
Fai bei sogni – L'eco del dolore altrui
Questo libro è entrato dalla porta di servizio. Nel senso
che non è rimasto attaccato alle mie mani, ma a quelle di mio marito, che lo ha
scelto d’istinto. Io, naturalmente, mi sono ben guardata dal muovere qualunque
tipo di obiezione. La mia missione principale, nella vita, è quella di dare
asilo ai libri, salvandoli dalla solitudine delle librerie. Non è da trascurare
il fatto che a me piace moltissimo lo stile di Massimo Gramellini: ogni tanto
il suo nome si sovrappone, nella mia mente, a quello del giornale di Torino per
cui scrive, La Stampa. Difficile prescindere da lui, se vivi in questa città e
leggi quel giornale. Spesso non leggo nemmeno i titoloni in alto degli articoli
più in alto, quando compro La Stampa fisica, ma vado ad accertarmi che ci sia
il suo “Buongiorno” e a leggere il relativo titolo. Poi acquisto. Allo stesso
modo, nella versione online del giornale vado a guardare la sua rubrica, anche
facendo veri e propri camel trophy per trovarla, perché non è immediatamente
visibile, come nella sua controparte di carta. Misteri da webmaster. Scoprii l’esistenza
e lo stile di Massimo Gramellini all’epoca di Specchio, il supplemento del
sabato, con la sua rubrica, Cuori allo Specchio. All’inizio mi era quasi
completamente sfuggita: l’avevano messa in ultima pagina, che è il luogo che
scarto quasi a priori. Mi sono accorta presto, però, che il detto “dulcis in
fundo” qui è particolarmente adatto, per cui l’ultima pagina per me divenne
prima: adottai la lettura alla “giapponese” per Specchio…J Quello che mi colpì
quasi subito del modo di scrivere di Gramellini era il suo stile molto vivo, di
carne.
giovedì 12 luglio 2012
Assassinio nella Cattedrale – La tentazione
L’atmosfera è pesante, tetra e senza alcuna speranza, da
subito. Un coro di donne, che sembra uscito direttamente dalle tragedie greche,
fa sentire subito la disperazione di un giorno di dicembre del 1170, quando
tutta la vita sembra essersi fermata per l’inverno. Sono preoccupate per se
stesse, per gli oscuri presagi che leggono nella natura intorno, per
l’Arcivescovo e la difficilissima posizione in cui si è messo, ostacolando la
volontà del re. Alcuni preti entrano dopo di loro, e la conversazione è sullo stesso
tenore: nessuno di loro vede la possibilità di un esito positivo della vicenda.
Quando entra Thomas à Becket, non ci sono grandi cambiamenti: lo stesso
Arcivescovo si sente segnato, sente che il suo tempo è contato e che non può e
non vuole farci nulla. La prima volta che lessi il libro, al liceo, avevo
soggezione di questa atmosfera tragica, di tono così elevato. Thomas à Becket,
fin dall’inizio, sa che deve morire, che non può non morire, e accetta la sua
fine inevitabile con coraggio sereno. Ora, a distanza di anni e con una visione
almeno un po’ più ampia e sperimentata, sarei portata a pensare che l’arcivescovo
si è arreso troppo presto al suo ruolo di martire.
mercoledì 4 luglio 2012
Assassinio nella Cattedrale – Un titolo cinematografico
Di nuovo Eliot. Dopo aver finito di leggere Il libro dei
gatti tuttofare, ho scoperto che non potevo fare a meno di ritornare all’altro
titolo che ho già nominato di Eliot, Assassinio nella Cattedrale. Lo lessi a
scuola, e la mia immaginazione piuttosto fervida si era avventata subito sul
titolo, dai toni apocalittici, cinematografici, e dai molteplici echi. Non
conoscendo ancora Eliot e non sapendo collocarlo nel suo tempo, la prima cosa
che pensai fu ad un giallo sul modello di quelli di Agatha Christie. Rimuginando
sul titolo, mi sembrava di sentire alcuni echi del genere “Hanno ammazzato
compare Turiddu!”, che è l’urlo che chiude Cavalleria Rusticana, di Verga. Ok,
sono consapevole che sono due autori, due libri, due situazioni completamente
diverse. Ma hanno in comune una matrice tragica che corre al di sotto delle due
narrazioni, e che non si può rovesciare. I protagonisti finiranno entrambi
uccisi, lo sanno entrambi (Cronaca di una Morte annunciata…sì, questo titolo di
un’opera completamente a se stante potrebbe essere il sottotitolo ideale di
parecchi libri. Ora si capisce meglio cosa s’intende per “Furore d’aver libri’”?
Si inizia a parlare di libri e la frenesia s’impadronisce, spingendo a
richiamare alla memoria autori e libri diversi, antitetici, uguali, separati
alla nascita) e non lottano per cambiare questo stato di cose. Sanno che è
ineluttabile, ed è necessario per loro finire così. Entrambi, Turiddu e Thomas
à Becket, l’arcivescovo di Canterbury, hanno offeso un’autorità, che non
prevede il perdono per quello che hanno fatto.
domenica 24 giugno 2012
Il libro dei gatti tuttofare – La rassegna
Inizia la rassegna dei tipi di “gatti tuttofare”. Il primo
gatto è in contemplazione muta e immobile del suo nome. Gli altri manifestano
la loro essenza nei modi più diversi. La vecchia Gatta Gianna Macchiamatta (The
Old Gumbie Cat) siede senza far nulla sui gradini di casa per tutto il giorno.
Ma quando cala la sera, improvvisamente entra in scena: va in cantina, scova i
topi e invece di mangiarseli si occupa della loro educazione: musica, ricamo,
lavoro ad uncinetto, cucina. Non è quantomeno bizzarro? Queste prime righe mi
hanno riportato alle atmosfere allucinate di Alice nel Paese delle Meraviglie,
con il Bianconiglio indaffaratissimo e spaventatissimo dall’enorme ritardo
accumulato nello sbrigare le sue faccende. Si prosegue con un Sandogatt (eh, sì…J), che forse suona più
divertente alle nostre orecchie latine di Growltiger, l’originale inglese, che
è un gatto d’assalto. D’aspetto trasandato perché reduce di mille battaglie,
duro e poco piacevole, è il primo a farsi coinvolgere in ogni rissa, se non a
iniziarla. E’ mosso da odio e volontà di vendetta verso altre razze di gatti,
come i Persiani e i Siamesi, poiché uno di loro ebbe il coraggio di strappargli
un orecchio. Il terrore di tutti i porti, il “bullo” per eccellenza, però,
viene ripagato della sua vita di violenze e soprusi, nell’ultima lotta che lo
vede perdente e costretto a saltare giù da un muretto in acqua. Alla terza
poesia, ci si rende conto di come Eliot abbia voluto prendere in giro alcuni
tipi umani piuttosto precisi: il Tirammolla (the Rum Tum Tugger) è un gatto
perennemente indeciso e “bastian contrario”. Se gli si offre un cibo, ne vuole
un altro. Se viene portato fuori casa, rientra in casa. Se viene tenuto in
casa, miagola perché vuole uscire. Irritante, eh? “ed è del tutto inutile
sgridarlo:/lui alla fine fa/solo quel che gli va/e non c’è nessun modo di
cambiarlo.” (T.S.Eliot, Il libro dei gatti tuttofare, pag. 31, Bompiani) Vedo un riflesso
abbastanza familiare…
venerdì 22 giugno 2012
Il libro dei gatti tuttofare – Il nome dei gatti
Iniziamo a parlare di nomi, allora. La prima poesia s’intitola
proprio così, Il nome dei gatti. Sembra una faccenda da poco…ma è davvero così?
Si potrebbe girare la domanda a qualche proprietario, o meglio, a qualche
co-inquilino umano del suddetto animale. Eliot non pensa che sia una questione
facile, e inizia: “ E’ una faccenda difficile mettere il nome ai gatti;/niente
che abbia a vedere, infatti/ con i soliti giochi di fine settimana…”(Eliot, Il
libro dei gatti tuttofare, pag. 5, Bompiani). Ed espone poi la sua teoria. I
gatti, in realtà, non devono avere solo un nome, ma tre. Uno, domestico,
tollerato dall’animale (aggiungo io, questa è una mia impressione), di uso “comune”.
Probabilmente per dare all’umano l’illusione di possesso sulla bestiola. Il
secondo, è il nome che il gatto considera più appropriato per sé e che lo fa
incedere sussiegoso e ben pieno di sé. Almeno, secondo i suoi canoni…Eliot ne
dà qualche esempio, come Mustrappola, Tisquass, Ciprincolta (originali inglesi:
Munkustrap, Quaxo, Coricopat), “nomi che vanno bene soltanto ad un gatto per
volta”. (ibidem) E questi sono i nomi che identificano ogni gatto, esattamente
come i nomi umani identificano le persone tra di loro (e noi abbiamo anche i
cognomi, per sconfiggere le omonimie), e in qualche modo le modellano.
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