Ehm!
Un attimo per riprendermi: mi sono cappottata…
Bene, eccoci qua. Dopo aver riso come una matta alle
avventure del cuoco chiantigiano, torno ad elucubrare.
Il motivo per cui rimugino?
All’inizio pensavo fosse la presenza di tutti quei mostri.
Ma che cavolo, ha la calamita ‘sto cuoco? Capitano tutte a lui, perfino i
mostri? Bipedi, quadrupedi, alati o “pinnati”… tutti lì? È proprio sfigato!
Poi, procedendo nella lettura – se si riesce: mica è facile
leggere in preda alla ridarella con le lacrime agli occhi e il naso che cola –
scopriamo che c’è una spiegazione.
A parte il fatto che vorrei capire se sono più mostruosi i
bipedi o tutti gli altri... sì perché una bestia strana è una bestia strana,
agisce secondo l’istinto della sua razza, ma l’homo sapiens dovrebbe avere un
cervello, giusto? E magari ricordare di usarlo. Sì, va be’, stendiamo il famoso
velo pietoso.
No, il motivo è il commento di Ivano al post di Loredana. Il
primo pensiero è stato: perché mai dovrebbe darmi problemi codesto libro? È
divertente ed in mezzo alle castronerie c’è qualche spunto interessante, come
la plurilaureata che lavora come cartomante: in Italia fa più carriera così… a
proposito, Loredana, proviamo una nuova carriera con il mio schema dei
tarocchi? Si può brevettare?
Va be’, atterriamo e cerchiamo di revenir à nos moutons – tanto per restare in tema
“animal-farsesco”.
I dialetti, ecco la causa scatenante. Del resto già Dante
(voglio dire, mica l’ultimo belloccio rifatto dei programmi televisivi) ha
esposto la sua autorevole opinione, no?
C’è dialetto e dialetto.
E ho scoperto da tempo che la mia sopportazione si discosta
poco dal corso del Po: più vado verso sud e più cresce l’allergia. L’Arno è il
limite massimo: per me le colonne d’Ercole sono da quelle parti, nec plus
ultra.
Un paio di esempi.
Anni fa mi regalarono Tre metri sopra il cielo; non superai
le prime due pagine: potevo ancora sopportare storie di adolescenti, ma tutta
quella “romanità” era pesante.
Camilleri. Me ne hanno parlato, mi hanno prestato alcune
indagini di Montalbano… niente. Poche pagine e la Sicilia mi opprime, devo
scappare da quel mondo. Ricordi La mennulara di S. Agnello Hornby? Ecco: stessa
sensazione soffocante, superata solo dalla curiosità di arrivare alla soluzione
del mistero.
Non parlo neanche della Sardegna, ho appena finito un ciclo
di antibiotici, meglio evitare gli antidepressivi… (se qualche sardo sta
leggendo, non si offenda: mamma è cagliaritana, ho amici e parenti
straordinari, ma parlano un’altra lingua).
Insomma: posso tollerare qualche citazione,
quell’espressione dialettale che aggiunge un tocco di realismo, ma detesto
trovarmi in certe località. Di per sé è un fatto positivo: significa che il
libro fa il suo dovere e ti trascina nel suo mondo.
Ma se io non volessi visitare quel posto? Perché tornare in
un luogo che mi causa disagio?
Che mi dici, Loredana?
Hai fisime simili?
Iniziando dal principio, in effetti Nero Bonelli ha una
specie di calamita per i mostri. Lui è un cacciatore, volente o nolente, per
cui ora li vede prima e soprattutto dappertutto. Anche perché sono davvero
dappertutto…
Mi par di capire che questo libro ti ha infastidito, o
meglio, stimolato. Ti ha punzecchiato facendoti tirare fuori un po’ di cose. In
Italia si fa carriera in molti modi, ma tutti lontani dagli studi o dalle
competenze, per cui sì, secondo me dovremmo mettere a punto un altro po’ di schemi
con i Tarocchi e iniziare a fare le cartomanti, magari via Internet. Sai che
consulti divertenti escono fuori? E ci azzeccheremmo anche!
Non è la prima volta che ricorre il Padre Dante, nelle
ultime letture. Ho inciampato nel suo serto d’alloro dove meno mi aspettavo di
trovarlo, in un’indagine tra Napoli e Afghanistan, in un trattato sulla bastardaggine vista da Partenope, e anche qui, nell’horror culinario con le
maledizioni colorite di Nero.
Se ripenso all’attenzione che il Sommo ha voluto attirare a
tutti i costi sul dialetto fiorentino come perno per creare un volgare italiano
da usare su tutto il territorio nazionale, sono propensa a dargli ragione. Il
suono è più musicale, e forse era più aperto a modifiche e aggiustamenti per
farsi comprendere con maggiore facilità.
Devo dire che per me non ci sono Colonne d’Ercole, per i
dialetti. Partendo dal Nord, e da dove siamo, la parlata piemontese che ogni
tanto riaffiora ne In pugno alle stelle, o in Studio da carabiniere e ti sposo, di Valeria Amerano, mi piace perché è qualcosa di noto. Penso anche a Lapaga del sabato, di Fenoglio, per quanto il dialetto lì sia leggermente
diverso, immerso nelle Langhe. Evoca colline, cascine, alberi.
Conosco poco quello lombardo, e qui mi ci ha portato Il paradosso di Pancrazio, con un paio di espressioni. Tendo a dimenticarmi che
esistano i dialetti in Lombardia…la presenza di Milano è troppo ingombrante.
Quasi niente l’insieme dei dialetti veneti, che ho occhieggiato in alcune
pagine di Goldoni, ma è veramente poca cosa. Ogni tanto li leggo in commenti o
in Pagine dedicate su Facebook (tipo Te si Veneto se…),
e scoppio a ridere quando li ripeto ad alta voce per sentirne il suono.
Se ripenso a tutti i dialetti che ho incrociato nelle
letture, non ce n’è uno che mi respinga, o che mi provochi fastidio. Mi fanno
ridere e divertire quello romano, o quello toscano che mi azzera le resistenze.
Quello napoletano è strafottente, ma in un abito simpatico. Quello siciliano
della Agnello Hornby, per esempio, è serio. Forse perché la Mennulara è
personaggio drammatico e di tinta forte, non mi viene da ridere leggendo quel
dialetto, ma da stare rispettosamente in silenzio e al mio posto. Con Camilleri
potrei rovesciarmi dalle risate, soprattutto con Catarella, che non ne può
azzeccare una, nemmeno volendo.
Non riderei con la parlata sarda dell’Accabadora di Michela
Murgia, tuttavia. Bonaria Urrai non è personaggio che muove al riso, e non ha
il piglio di Geppy Cucciari. Qui si parla di un’altra lingua, hai ragione, che
ha il suo fascino proprio perché ha radici così diverse, con quasi niente in
comune con il resto degli idiomi.
Se ripenso alle opinioni che ho espresso, vedo che io tendo
a identificare il dialetto con chi lo parla. Se il personaggio è serio, allora
le sue parole dialettali sono da ascoltare con serietà, altrimenti, se è un
arlecchino beffatore, si può anche ridere a crepapelle.
Il vantaggio di non voler tornare nei luoghi di vita di un
libro è molto comodo: se proprio non reggi all’idea, puoi sempre tenerlo
chiuso, metterlo via, regalarlo, con una spesa molto minore di un biglietto
aereo o di treno!
Ecco, L’Accabadora è sulla lista, volevo quasi chiederti di prestarmelo. L’argomento mi interessa, ho svolto ricerche in quel senso per la tesi e l’esame finale, mi trattiene proprio l’ambientazione…
RispondiEliminaTe lo passo. Ti piacerebbe, dimenticati dell'ambientazione. Sì, sembra impossibile, ma si può...
Elimina