Era inevitabile che prima o poi accadesse. Questa volta,
l’ostrica della Cento Autori per WeekendOut offre una perla un po’ spinosa,
creata da un dolore antico, che anni fa gridava fortissimo dal Sud del mondo. Almeno,
ebbe una risonanza mondiale, attirando l’attenzione, lo sconcerto e il biasimo
di tutta la comunità umana del pianeta. Sting vi dedicò una canzone, tagliente
e compassionevole.
Il titolo della perla recita: Il
giorno in cui Gabriel scoprì di chiamarsi Miguel Angel, di Massimo Carlotto. Di primo acchito,
potremmo pensare ad una storia su uno scambio di culle, un neonato destinato
all’abbandono, magari perché “figlio della colpa”, e poi salvato e cresciuto da
un buon samaritano che lo trova per caso, o proprio da chi doveva disfarsene,
mosso a compassione.
Purtroppo, qui non si parla di favole a lieto fine, e nemmeno
di romanzi picareschi tanto cari agli scrittori settecenteschi, che facevano di
poveri orfanelli i loro eroi, sottoponendoli a vere e proprie prove di abilità,
astuzia e coraggio, per poi trasformarli nei figlioli perduti e poi ritrovati
di ricchi proprietari terrieri in età avanzata.
Il filo conduttore qui è
l’Argentina, il regime, i desaparecidos. Gabriel Matias Rolon è un fiorente
adolescente di 17 anni, figlio di un tenente di vascello, con due fratelli
maggiori, una buona posizione sociale, e le consuete preoccupazioni e gioie
degli esseri umani a quell’età. Un giorno, tutto il suo bel mondo precipita a
terra, per rialzarsi con l’aspetto di un incubo orribile. Entrando in classe,
come sempre, nota le occhiate in tralice del tutto inaspettate dei suoi
compagni, e un certo atteggiamento schivo e quasi di biasimo. La spiegazione di
questo mistero non si fa attendere. Uno degli allievi estrae un foglietto dalla
tasca, che contiene un’accusa pesantissima, insopportabile: è la pagina di un
sito in cui il padre di Gabriel, il tenente di vascello della Marina militare
argentina Juan Carlos Rolon, compare definito e schedato tra i torturatori del
regime, tra i principali responsabili creatori della piaga dei desaparecidos.
Potrebbe essere solo un’accusa infamante, uno scherzo
orrendo, inaccettabile, ai danni di un esponente serio della buona società
argentina. Il sito, però, non è un dispensatore di bufale o di pettegolezzi
pericolosi e devianti, ma un divulgatore serio di notizie e informazioni su
quel periodo buio in Argentina. Sono le cosiddette abuelas, le Nonne di Plaza de Mayo, che lo hanno creato, nel tentativo di seguire
le ultime tracce deboli di figli e figlie, improvvisamente scomparsi nel nulla
semplicemente perché considerati “sovversivi”. Se non possono riavere indietro
i figli, né vivi, né morti, desiderano ritrovarne i figli, i loro nipoti, per
tentare di ricostruire una famiglia spezzata insensatamente, e per dare ancora
l’amore che esplode dentro i loro cuori.
Secondo la ricostruzione di una delle abuelas, il giovane Gabriel non sarebbe il figlio di un militare (e
antico carnefice), ma di una coppia di vittime, di desaparecidos. Inizia un
viaggio allucinante, per l’adolescente, all’interno e all’esterno di sé, in due
mondi che improvvisamente non riconosce più, perché hanno perso tutti i
riferimenti noti.
E’ un libro cortissimo: in meno di ottanta pagine, l’autore
racconta una vita che si spezza all’improvviso, e che fatica a ricomporsi.
Gabriel vuole ritornare a tutti i costi ad un passato conosciuto e molto
gradevole, e non può accettare il presente, che sembra così agghiacciante. Massimo
Carlotto non si dilunga in troppe parole, in un’introspezione esasperata e
tormentata sul conflitto di un’anima intrappolata in un incubo. Non sembra
interessato a dare una spiegazione, o una consolazione agli eventi che stanno
sconvolgendo il ragazzo dalle fondamenta. Sta fotografando una realtà spinosa e
sgradevole, punteggiandola di occasionali commenti molto brevi e asciutti. È un
dolore così forte e così intimo, che l’unico modo per onorarlo è tacere.
Tuttavia, non è né freddo, né indifferente, trova una sua
oggettività: semplicemente, racconta e non esprime giudizi, non impartisce
lezioni. E’ il suo stile, come si è già potuto notare nella quadrilogia scritta
con Marco Videtta su quattro donne forti e spietate, Le vendicatrici. Colpisce
preciso e netto come una lama, però: in diversi punti è molto difficile non
farsi prendere dalla commozione, o impedire che emergano tante domande scomode
su se stessi. Per esempio: e se fosse capitato a me? Cosa farei, se scoprissi
che chiamo papà il responsabile diretto e ladro del mio vero padre? Cosa potrei
dire o fare, se invece questa orrenda eventualità fosse capitata a qualcuno dei
miei amici? Pur essendo passati diversi giorni da quando ho messo via il libro,
non posso evitare ogni tanto di dedicare un pensiero a Gabriel e alla sua
ingombrante situazione. Cosa farei io, al suo posto? E’ ancora seduta lì,
questa domanda.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.