Come ho già detto diverse volte, raramente leggo i libri
alle loro prime uscite. Le novità, per me, arrivano quasi sempre dopo che tutti
se le sono dimenticate, compresa me, per cui mi si accende la lampadina e mi
accosto all’ex-novità. Ogni tanto i libri devono essere lasciati decantare, ma
ultimamente sto esagerando.
Ci vuole un cambio di rotta, no?
Quello di Alessandro Perissinotto non è affatto un nome
sconosciuto. Torinese del ’64, insegna all’Università di Torino, Teorie e
tecniche delle scritture, ed è romanziere dal 1997: da quel momento in avanti
ha pubblicato dodici romanzi.
Io sono riuscita a intercettarne l’ultimo, quello di cui sto
scrivendo.
Perché? Per il motivo più banale del mondo, perché esistono
più libri di tempo per leggerli, come recita una famosa citazione di cui ho
dimenticato il “padre” e che campeggia prepotente su uno stand del negozio
Feltrinelli di Porta Nuova a Torino, in cui entro spesso e volentieri. Tuttavia,
mentre tornavo a casa una sera, ho visto quel bellissimo blu della copertina,
la fotografia di un bimbo imbronciato e un titolo allettante.
Il resto è storia.
Che ne dite, entriamo nell’acqua del libro? Direi che il
momento è arrivato.
La quarta di copertina racconta di Edoardo Rubessi, un
genetista di fama mondiale, probabilissimo candidato al Premio Nobel che torna
a Torino, la città in cui ha studiato e vissuto prima di lanciarsi in una
carriera fulminante e prestigiosissima negli Stati Uniti nei precedenti
trentacinque anni. Lo accompagna la moglie Susan, elegante e fascinosa
italo-americana, fotografa apprezzata e di talento. Edoardo Rubessi deve
svolgere un incarico delicato, che solo lui può portare a termine: condurre un
protocollo di cura di una malattia genetica rara e mortale, di cui tendono ad
ammalarsi principalmente i bambini.