domenica 25 marzo 2012

Twilight – Un’ironia insolita

E’ un libro di vampiri strani, questo. Viene subito fuori che Edward Cullen fa parte di una “famiglia” di vampiri: padre, madre, alcuni fratelli e sorelle. Prima deroga alla figura del vampiro, oscuro, malvagio, e sempre solitario. Il padre (e in senso vampiresco lo è) è un medico, che lavora nell’ospedale della cittadina. Seconda clamorosa deroga. I vampiri lavorano? Si mostrano di giorno (mai al sole, però)? Non si nutrono di sangue umano? E poi, far lavorare un vampiro in un ospedale equivarrebbe ad affidare una serie di pollai alle volpi. Secondo me, questo è un tocco d’ironia sottilissimo e molto divertente da parte dell’autrice. Il Dottor Cullen, il padre di Edward, è anche un medico capace e molto stimato dalla comunità. Si sarebbe portati a pensare ad una doppia vita dietro alla facciata gradevole: se lavora in ospedale, ha libero accesso a sangue e vittime, che poi può facilmente occultare. Invece, emerge che il medico vampiro ha dato prova, nel corso dei secoli, di una forza d’animo talmente straordinaria da essere capace di imporsi sulla propria natura di predatore. Non solo cerca con tenacia, fino a trovarlo, il nutrimento alternativo per lui e i suoi simili, che educherà a dominare e trasformare la propria sete oscura, ma si dedica ad aiutare e curare proprio quelli che dovrebbero comporre le portate principali dei suoi pasti, gli esseri umani.  Un angelo con ali di pipistrello. Edward e i suoi fratelli non mostrano lo stesso desiderio di mescolarsi ai loro concittadini. Per quanto addestrati a tenere sotto controllo gli istinti, non sembrano fidarsi della propria forza come fa il medico. In effetti, a scuola formano un loro gruppo appartato, anche per non dover essere costretti a spiegare perché non mangiano mai dalla mensa, pur prendendo vassoi e portate come tutti gli altri studenti. Quando Edward incontra Bella per la prima volta, la protagonista femminile, il vampiro distante e superiore nella sua forza e longevità, riceve un duro colpo. La ragazza è talmente irresistibile (pur essendone completamente inconsapevole) che in lui si risveglia la sete e solo un’enorme sforzo di volontà gli impedisce di vanificare il suo addestramento. All’inizio sembra odiarla, e lei stessa ha questa impressione.  Lei rimane soggiogata dal suo fascino, ma intimorita dalla strana espressione di odio famelico che gli legge in viso, di cui non sa proprio spiegarsi l’origine. Inizia un rapporto ambiguo, sottile, fatto di silenzi, sguardi, supposizioni (soprattutto da parte di Bella, che è la voce narrante del libro), salvataggi tempestivi e del tutto straordinari da parte del vampiro, che diventa suo malgrado un angelo custode, pur se con ali di pipistrello come suo padre. Man mano che i due ragazzi si conoscono meglio (e Bella intuisce quasi subito la natura oscura del giovane e non ne rimane granché spaventata), il rapporto si colora di una certa sensualità ritrosa e anche ironica. Stephenie Meyer è di sicuro una donna ironica, abituata a sovvertire cose e situazioni. All’inizio è il vampiro ad essere attratto dalla ragazza, perché il suo profumo gli fa quasi perdere la testa e l’addestramento. Ma poi è lei che perde letteralmente la testa quando lui si avvicina fino a baciarla. Il contatto con il vampiro scatena una passione insospettata in una ragazza all’apparenza normale e dimessa (secondo la visione che Bella ha di se stessa), che deve “controllarsi” per non andare oltre. Anche perché, quell’oltre potrebbe avere conseguenze più tragiche di quanto comunemente accade.

domenica 18 marzo 2012

Twilight – L’altro vampiro

Ed ecco la moda delle ultime stagioni. Come spesso accade, leggo i libri di moda diverso tempo prima che questi diventino tali (come Il Signore degli Anelli, Il mistero del Sacro Graal, ecc.), oppure diverso tempo dopo. Aspetto che le acque e la frenesia si calmino, e poi prendo in mano il libro. Soprattutto per vedere cosa scatena così tante passioni e consensi. Capitò nello stesso modo per Harry Potter: erano già usciti tre libri prima che un’amica me li sistemasse in mano e mi dicesse di leggerli. Non volevo saperne. Dopo averli letti sono andata a cercare e ad aspettare gli altri perché qualcosa aveva risposto positivamente in me al maghetto con la cicatrice.  Ho fatto la stessa cosa con Twilight, ma devo dire che finora non si è acceso un interesse viscerale. Io adoro le storie di vampiri. Da Bram Stoker in avanti, penso di aver letto una serie di romanzi ottocenteschi più o meno famosi (come quello del Dott. Polidori, che dovrebbe aver ispirato il cult Dracula, Carmilla di Le Fanu) sul tema, fino ad arrivare ai giorni nostri. Lestat, il vampiro dandy di Anne Rice, che conobbi prima al cinema nel viso emaciato di Tom Cruise, mi convinse subito a comprare il libro e a seguire la saga. Seguo anche un fumetto sui vampiri, Dampyr. Non ho ancora deciso se sono i vampiri ad attirarmi o chi li combatte. M’interessa scoprire il vampiro, ma poi, in realtà, parteggio per chi gli dà la caccia e lo uccide. Era affascinante Dracula…ma non poteva rivaleggiare con Van Helsing. Questo capita nei romanzi dove il vampiro è il male. In Twilight, non è così. Il vampiro non si nutre di sangue umano, non è crudele e non progetta lo sterminio dell’intera razza umana per prenderne il posto. Edward è un bel giovanotto americano, meravigliosamente bello (un po’ pallido…), studente modello, bel tenebroso (e qui non è solo un modo di dire), dai modi educati d’altri tempi (ed è proprio così, letteralmente). Vive in una piccola e quasi sempre piovosa cittadina americana, frequenta la scuola e cerca di integrarsi al meglio…questione che gli riesce un po’ difficile, essendo un’icona di bellezza virile difficile da ignorare. L’adorazione altrui, però, rimane rispettosa e limitata: il giovanotto appartiene ad un’altra razza (e non è nemmeno qui un modo di dire, poiché nessuno sa che è un vampiro), e nonostante i suoi modi amichevoli, questo si percepisce talmente bene, che il resto della cittadina si accontenta di adorarlo da lontano, consapevole di non esserne all’altezza.

domenica 11 marzo 2012

Arrivederci Piccole Donne – Vite difficili

Il parallelo con le piccole donne americane però, presto si dimentica, nonostante i capitoli inizino sempre con i loro nomi. Il fantasma della Alcott si allontana sempre di più, e nemmeno si sentono più i rumori delle sue catene.  Man mano che andavo avanti nel libro, scoprivo una serie di accadimenti e di eventi che mi distaccavano sempre di più dall’altro libro. Queste donne cilene sono prepotenti. Sono ricche; di denaro, almeno all’inizio, ma soprattutto di vita e di energia. Un’energia che sfogano in milioni di modi diversi, approfittando del fatto di essere ragazze ricche circondate da una casa enorme, retta con mano potente da una zia virago solida come un’intera catena montuosa, con un passato di passione focosa accuratamente sublimata nell’impegno a tutto tondo negli affari (la segheria di famiglia) e nella conduzione della servitù della casa stessa. Le ragazze, inoltre, non fanno fatica ad avere compagnia: sono in quattro, suddivise e strette nelle loro alleanze, circondate da “amici” e conoscenti di vario grado, sorvegliate da un giovane uomo, fratellastro di una di loro, su cui si appuntano le attenzioni di due ragazze in particolare. Passano i loro pomeriggi di adolescenti a leggere libri (classici, soprattutto), a suonare musica, a fare passeggiate, come le giovani dame dell’alta società di qualunque nazione. Non solo leggono i libri, ne discutono, li criticano e li commentano, ma li vivono. Scelgono un personaggio e vivono con la testa e lo spirito della loro scelta, immedesimandosi con una tale passione da superare qualunque attore. E’ così che impersonano anche le piccole donne del libro americano, litigando anche sui personaggi da interpretare, contendendosi una ragazza yankee particolarmente preferita. Sotto la passione per la letteratura, si crea la passione dei sensi, che coinvolge due cugine e Oliviero, il bel fratellastro di una di loro, che si auto-elegge compagno di giochi, salvatore, guardiano, pomo della discordia, vittima e carnefice. Le due ragazze che s’innamorano di lui, e di cui lui si innamorerà in modi e tempi diversi, si sfidano, si colpiscono senza pietà, s’infliggono dolore l’una con l’altra, pur di averlo. Devo dire che, ad un certo momento della storia, ho pensato che si sarebbero sfidate a duello all’alba. Così non è avvenuto, ma i colpi che si sono scambiate sono stati più profondi e dolorosi di qualunque sciabolata o ferita da taglio. Saranno necessari anni e chilometri di lontananza per recuperare un rapporto che sembrava spezzato e concluso. E come spesso accade, ritrovare un nemico comune che ha colpito entrambe e su cui vendicarsi, oltre all’aiuto ultraterreno della cuginetta morta, conduce al tentativo di perdonare e chiudere le vicende e i sentimenti passati, per iniziarne di nuovi.

domenica 4 marzo 2012

Arrivederci Piccole Donne – Un parallelo bizzarro

Ammetto che mi ricordo a malapena come ha fatto ad entrare questo libro nella mia biblioteca. Il titolo e l’autrice non mi dicevano moltissimo. In più, la copertina mi attirava poco, con i suoi disegni naif. Avrei potuto lasciarlo stare dov’era.  Dato che conoscevo poco la letteratura sudamericana, ho deciso di sperimentare un nuovo mondo. Credo che siano passati diversi anni da quando l’ho portato a casa…spesso capita così. Il mio “furore” di aver libri mi spinge ad “adottare” libri sull’onda delle emozioni che suscitano e quando li porto a casa, ho bisogno di lasciar decantare la strana emozione frenetica che si agita in pancia per aver comprato un altro libro, probabilmente per aver portato un’altra scintilla di conoscenza nella mia vita e nella mia casa. Quando si è calmata l’emozione per quel particolare libro (e possono passare giorni, anni, mesi, vite intere), lo prendo in mano e lo leggo.
Nel caso di Arrivederci Piccole Donne, ho fatto un po’ fatica ad entrare. O meglio, sono entrata e mi sembrava di conoscere già i luoghi: c’era l’ombra di Isabel Allende e della sua Casa degli Spiriti che si intravvedeva sotto la trama. Mi sembrava di leggere un doppione, alle prime pagine, anche se la differenza principale, che mi teneva legata, era quel parallelo curioso che l’autrice Marcela Serrano ha costruito tra le sue quattro donne sudamericane roventi e moderne e le quattro tragiche statuine nordamericane di Louisa May Alcott. In Sudamerica le ragazze sono cugine tra loro, immerse nel caldo e nella vita opulenta e sonnacchiosa di una tenuta di proprietari ricchi, mentre al Nord, le quattro fanciulle sono sorelle, al limite della povertà, costrette a lavorare e mantenersi e a lottare contro inverni rigidi e freddi.
Ogni capitolo porta il nome della ragazza yankee, ma la voce che si sente raccontare dal suo punto di vista gli eventi tormentati della famiglia Martinez appartiene alla cugina sudamericana che maggiormente le assomiglia.  Questo parallelo bizzarro è l’elemento che mi ha convinto a leggere il libro fino alla fine, oltre al fatto che la vicenda delle piccole donne sudamericane si svolge in tempi molto vicini, in Cile, tra l’11 settembre 1973 di Salvator Allende (e riecco la presenza di un Allende…) e l’11 settembre 2001 delle Torri Gemelle.  
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