domenica 12 febbraio 2012

L'eleganza del riccio - Cibo per mente, cibo per stomaco, il test

Renée inizia a manifestare i suoi dubbi, perché le sue certezze sono state scosse da un libro sulla fenomenologia, di cui conosce poco, che prende spunto per la sua argomentazione da uno dei miti personali del personaggio, Immanuel Kant. (Decido di risparmiare la mia personale opinione su Kant: sono sicura che sia stata ampiamente falsata da un errato insegnamento ricevuto in gioventù. Mi riservo di approcciare Kant con un’altra mente, ora che ho un’altra età, e con il desiderio di constatare di persona la grandezza o meno di questo filosofo che ha avuto un impatto così forte sulla filosofia, sulla letteratura e sul modo di vedere il mondo di chi è nato dopo di lui) Si riprende presto, rialza la testa e si ricorda chi è: “Umile per nome, posizione e aspetto, nell’intelletto sono una dea invitta” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, pag. 46). E lo è davvero, non è un modo di dire. Renée scopre che, nonostante la sua solida formazione sulle opere kantiana, qualcosa della fenomenologia le sfugge e questo le è insopportabile. Sottopone il libro che ha davanti al test della susina mirabella, confrontando due cibi. Affondando i denti nel cibo, l’uomo comprende il Tutto, secondo l’autrice.  Comprende il tessuto misterioso e sfuggente della vita che appare veloce sotto l’abito quotidiano delle attività e delle relazioni, e poi si sottrae alla mente possessiva che vorrebbe afferrarlo, agguantarlo, fermarlo, imbottigliarlo.  Mentre mangia il frutto (anticamente il frutto della conoscenza era una mela…), Renée mangia il libro, leggendo. Se la susina non la distrae dall’opera, e se l’opera non la distrae dalla susina, allora vale la pena continuare il pasto cerebrale. E questo non si è verificato molte volte: pochi libri hanno resistito alla spietatezza di questo confronto. Ma quelli che superano il test, meritano il rispetto e l’approfondimento di  Renée, che li usa per tenere vivo il suo cervello da dea invitta.

L'eleganza del riccio - La passione

Ma quando parla della sua vita segreta, la passione emerge eccome. Ed emerge soprattutto la sua grande capacità di impadronirsi di quello che legge, di farlo suo e di nutrirsi. A differenza della ricca signora Josse (la madre dell’adolescente dalla mente profonda e dalla vita altrettanto segreta della portinaia Renée) che usa la superficie dei suoi studi letterari come ventagli da sventolare di fronte agli altri e rimetterli via, la portinaia legge, e “mangia” quello che legge. Lo mangia per nutrire il suo animo prodigioso capace di ragionamenti  profondi perché “sentiti”.  Come gli esseri umani mangiano cibo per ottenerne energia per respirare, mantenere il cuore in funzione, dedicarsi alle loro attività, Renée mangia i libri per nutrire il suo spirito e la sua personalità.  “ Ho letto tanti libri…Eppure, come tutti gli autodidatti, non sono mai sicura di quello che ho capito. Un giorno mi sembra di abbracciare con un solo sguardo la totalità del sapere, come se all’improvviso invisibili ramificazioni nascessero, e intrecciassero far loro tutte le mie letture sparse – poi subito il senso scivola via, l’essenziale mi sfugge, e per quanto rilegga le stesse righe ogni volta mi appaiono più inafferrabili, mentre io mi vedo come una vecchia pazza che crede di aver la pancia piena soltanto perché ha letto attentamente il menu.” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, pag. 45) Ecco come mi sono sentita io molto spesso, di fronte ai libri che leggevo, alla fame che soddisfacevo con le loro pagine, alla fame che mi spingeva a cercare altro cibo simile, e soprattutto alla domanda: “dove finiscono le pagine che ho mangiato?” Penso che la risposta confusa che ho dato a me stessa a questa domanda sia stata chiarita splendidamente da questo paragrafo, per quanto ancora non mi veda come una “vecchia pazza”, ma sicuramente cerco di stare più attenta possibile a non cadere nel tranello ben camuffato di credersi sazi semplicemente perché si è letto con attenzione la lista delle vivande.

L’eleganza del riccio – Lo stile

Renée è molto chiara quando parla di se stessa. Non fa sconti su se stessa, quando fa il proprio autoritratto: da quando bambina entra a scuola per la prima volta, a quando diciassettenne incontra il futuro marito. Si dichiara brutta, di una bruttezza “senza perdono”, “senza appello”. Non c’è auto-compatimento, né ricerca di compatimento in chi legge le sue parole, mentre descrive una ragazza giovane nient’affatto attraente come lineamenti e nemmeno come atteggiamento. Non c’è tentativo di compensare la carenza di aspetto fisico con un atteggiamento spregiudicato, malizioso, misterioso, da posa o semplicemente aggressivo. Il suo è un inno alla banalità e alla piattezza più complete, senza possibilità di rimedio, molto coerente: il corpo non attraente si rispecchia in un modo di fare non attraente. E’ vero, come dicevo, che non c’è alcun auto-compatimento e nessun tentativo di suscitare il compatimento altrui, ma non c’è nemmeno eccessiva freddezza oppure odio e rifiuto per la sua condizione di “brutta” che la mette in una posizione di svantaggio e di inferiorità nei confronti del mondo. Renée è molto oggettiva, è un pittore che ritrae cio’ che vede nello specchio senza parteciparvi.

lunedì 6 febbraio 2012

Il vero nome - Da un blog amico

Ho ricevuto questo bellissimo commento e ho pensato di dedicargli un post intero, invece che un semplice commento.


Il vero nome
Ovvero elucubrazioni letterarie. Ho già accennato che mi sono “persa” nel blog neonato di un’amica: è un blog che parla di libri e mi ha “intrappolato” con la questione del vero nome.
So che accostare un libro fantasy alla questione ontologica può essere un po’ ardito, ma sarà perché ho la saga di Eragon “lì in attesa”, pronta per farsi divorare, sarà perché dopo le Scritture amo molto le favole ed il genere (da una collezione di Grimm, Andersen, Edda di Snorri, Kalevala fiabe tradizionali, mitologia nordica, Tolkien alle varie saghe di Dungeons&Dragons, passando per Dragonlance ed arrivare a Harry Potter), sarà anche perché un personaggio che s’interroga sul proprio nome m’ispira…

Chi sono? Eragon non sa rispondere. Continua a non saper rispondere. Si ritira in solitudine, togliendosi armatura e armi, di notte, da solo, in una città in rovina, possibile preda di animali feroci, entità oscure, assassini. Continua a riflettere, lotta brevemente con una lumaca gigante in cerca di cibo, si fa domande, studia l’ambiente intorno, si tormenta. Finché…una serie di riflessioni apparentemente senza uscita, lo conducono a scoprire il proprio vero nome. (...)

Eragon riesce nel suo intento, finalmente e la sorpresa è immensa e dolce: vede se stesso com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti, e lo accetta. Non gli piace moltissimo quello che vede, ma non si giudica. (…) Eragon non si rivela il cavaliere perfetto, senza macchia e senza paura, senza errori e cadute di umore, senza paure e passi falsi. Non è il superuomo fatto solo di luce, senza punti deboli e mancanze. Sospira di fronte ai suoi fallimenti, ma vede anche quanto c’è di buono in lui, e si ripromette di migliorare quello che non va. E’ l’accettazione del proprio fango interiore che gli permette di avanzare e di avvicinarsi al tiranno, e non la sua eliminazione. Nessuna idealizzazione in questa figura di Cavaliere del Drago, ma tanta umanità nella sua forma migliore e ampia: la consapevolezza di essere un’armonia di buono, cattivo, efficace, manchevole, grande, meschino, meraviglioso, scadente… (dal blog “amico”)
Il nome. Per gli ebrei IL Nome è Dio stesso. Per me il mio nome è “essenziale”: ci sono io nel mio nome, con il mio fango (l’adamah) e lo Spirito (la Ruah). Non fingo di non vedere il fango, non sarebbe sano. Ma anche ignorare la luce è insano: sarebbe ignorare la scintilla divina che Dio regala alle Sue creature, ognuno secondo un progetto divino misterioso, ognuno con un suo cammino.
Scoprire il mio nome: conoscere me stessa per conoscere IL vero Nome. Perché solo alla sua luce vediamo la luce.

domenica 5 febbraio 2012

L’eleganza del riccio – Altri misteri

Il condominio di Rue de Grenelle non esaurisce la propria quota di segreti in una portinaia dalla doppia vita del tutto fuori dei canoni. Gli stessi inquilini, o almeno alcuni, quelli meno ingessati nel proprio ruolo di “notabili” della città, nascondono vite segrete sorprendenti. Non si parla di amanti, trame per qualche forma di potere, politico, economico, sociale, ecc. Il libro è narrato in prima persona da Renée, dal fondo della sua guardiola, ma i suoi pensieri riecheggiano anche in alto, ai piani nobili, dove una giovane adolescente, appena dodicenne, esprime nei suoi Pensieri profondi una capacità di critica e un desiderio di mantenere la propria individualità nascosta (un’eco della portinaia Renée) che appartiene ad un animo molto più maturo.  “Io ho dodici anni, abito al numero 7 di rue de Grenelle in un appartamento da ricchi. I miei genitori sono ricchi, la mia famiglia è ricca, e di conseguenza mia sorella e io siamo virtualmente ricche. Mio padre è un deputato con un passato da ministro e finirà senz’altro presidente della camera a svuotare la cantina dell’Hotel de Lassay, la sua futura residenza. Mia madre…Beh, mia madre non è proprio una cima, però è istruita. Ha un dottorato in lettere. Scrive gli inviti a cena senza errori e non la smette di scocciare con i suoi riferimenti letterari (“Colombe, non fare la Guermantes”, “Tesoro, sei proprio come la Sanseverina di Stendhal!”). (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, pag. 15). Adorabile. E fenomenale. In un paragrafo, una fotografia in bianco e nero (di quelle con le luci fredde, da laboratorio scientifico), la giovane Colombe descrive se stessa e la sua famiglia. Il padre, tutto sommato, non colpisce molto  qui. Sembra una banale figura di uomo politico, dedito al perseguimento della sua carriera e relativi benefici (come lo svuotamento della cantina). La madre, però, fa tutt’altra figura. E più avanti nel libro emergerà nella sua bizzarria. Due frasi per descriverne la personalità colta (e l’accenno un po’ grottesco e maligno sull’assenza di errori nello scrivere inviti…), il dottorato in lettere, e una certa compiacenza nello snocciolare riferimenti letterari.  Riferimenti letterari che la signora applica nella vita, come se la letteratura di cui ha nutrito se stessa si fosse incarnata nelle situazioni che vive nella quotidianità. Un tentativo di vedere la vita un po’ più leggera e avventurosa di quanto sembri, nonostante un’assenza di problemi economici, vista la ricchezza e la posizione della famiglia?

mercoledì 1 febbraio 2012

L'eleganza del riccio - Il grottesco

Cambiamo argomento, decisamente. Dai draghi, ad una “draga”. E con draga non intendo la macchina per dragare la terra…una “draga” è una persona, in questo caso una donna, particolarmente in gamba in qualcosa. Si usa di solito l’espressione “sei un drago” perché naturalmente la lingua è più espressiva al maschile che non al maschile. L’espressione “sei una dragonessa” assomiglia ad un insulto, più che ad un’attestazione di ammirazione.  In questo caso, la “draga” è la protagonista de L’eleganza del riccio, la portinaia Renée, che vive e lavora in uno dei bellissimi palazzi della borghesia parigina. All’esterno, onora il cliché, anche fisico, della portinaia: di mezz’età, di aspetto scialbo, di gusti altrettanto scialbi, di scarsa se non nulla cultura. Una persona che vale poco, insomma, in grado di fare un lavoro tutto sommato di poco valore: “guardare un palazzo”…errore. E’ vero che le apparenze ingannano, e in questo caso in pieno. La signora può non aver studiato e seguito un percorso accademico “normale”, ma ha sviluppato un senso e un gusto per la cultura e l’informazione e l’arte estremamente forti.  Al riparo della sua povera guardiola nello splendido palazzo, legge L’ideologia tedesca, ascolta Mahler, legge testi di arte, guarda dvd con film d’autore.  E questo sembra già stridente con il precedente ritratto. Ma quello che veramente esce dagli schemi è la cura quasi angosciosa, da criminale attento a non farsi scoprire dalla legge, con cui la signora Renée si trincera dietro l’immagine (l’avatar, in qualche modo) della portinaia semi-analfabeta, povera di denaro e di spirito. Anzi, fa di tutto per mantenere vivo e in salute questo avatar nato e solidificato dai pregiudizi sociali, per proteggere se stessa e la sua vita segreta.
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