martedì 26 marzo 2013

Le sei mogli di Enrico VIII – Una riflessione conclusiva dopo molti secoli.


In ogni caso, Caterina Parr è l’unica regina a passare indenne sotto le forche caudine che erano diventate il re e la sua corte. Con il rigore giornalistico che contraddistingue alcuni autori britannici, Antonia Fraser conclude il libro con un veloce sguardo alle tombe delle sei mogli regali. C’è un po’ di tristezza, ripercorrendo quelle pagine: vite intessute di eventi forti, tragici, che avrebbero avuto conseguenze anche importanti, non solo su chi era strettamente coinvolto, ma persino sul mondo esterno. La storia è stata costruita attorno alla figura di un monarca che tanto spesso non ha saputo distinguere tra vita privata e pubblica, e che si è concentrato spesso e volentieri sul perseguimento a tutti i costi della propria volontà e dei propri desideri, che nella sua visione coincidevano con la volontà divina e il bene del regno. Mi ricordo che la prima volta che studiai le vicende di Enrico VIII e le sue mogli, pensai che fossero un po’ strane, bizzarre, e che non si sarebbero potute ripetere ai giorni nostri. Vedevo una quantità eccessiva di egocentrismo, di potere esercitato a sproposito, di ignoranza (e non solo in materia scientifica), e di interpretazioni errate e forzose della religione, della politica stessa. Rozzamente, mi feci l’idea che il re, come figura istituzionale, fosse un uomo capriccioso e viziato, abituato a farsi obbedire in tutto, sempre, in ogni occasione, in qualunque modo, e da chiunque.

lunedì 25 marzo 2013

Le sei mogli di Enrico VIII – Ciò che al re più aggradava.


La fortuna sentimentale non arride a Enrico VIII. Jane Seymour, la “pienamente amata” muore dodici giorni dopo aver dato al re il sospiratissimo erede maschio. Con tutta probabilità è stata la setticemia subentrata ad una febbre post-parto a portarsela via, oltre all’inettitudine quasi totale dei medici di corte, che non sono riusciti ad andare oltre rimedi della nonna e dall’efficacia inesistente per evitare l’evento luttuoso. Pur essendo colpito profondamente, Enrico VIII deve dare molto rilievo al suo ruolo istituzionale di monarca di un regno abbastanza turbolento, sotto la continua minaccia di vicini troppo invadenti e troppo pronti a farsi idee di conquista sull’isola britannica. Ricomincia la sua ricerca di una quarta moglie, affidando l’incarico ai suoi ambasciatori. Colpisce l’amarezza di una riflessione del re, probabilmente condivisa con il principale consigliere Thomas Cromwell: pur essendo potente, ricco, il primo uomo del suo regno, non può innamorarsi e sposare una donna scelta liberamente, seguendo il suo spirito. Arriva quasi a invidiare la sorte dei poveri che, al contrario di lui, possono seguire il loro cuore quando si tratta di scegliere una compagna di vita. E’ un esempio di quanto riesca ad essere sarcastica e anche equilibrata la vita: a qualcuno dona regni, bellezza e potere, e una scarsa capacità di gestirli con risultati soddisfacenti, mentre a qualcuno riempie la vita di sentimenti, di amore provato e diffuso, pur asciugandogli il portafoglio e riducendogli il luogo di abitazione. Naturalmente, le azioni di qualcuno tanto in vista quanto il re d’Inghilterra non passano inosservate.

venerdì 22 marzo 2013

Le sei mogli di Enrico VIII – Non solo icone


Una damigella giovane e fresca, di agile passo, più che eccelsa nel canto e nella danza, di nessuna lusinga d’amore priva; parlava francese con eleganza e proprietà…” William Forrest, The History of Grisild the Second, su Anna Bolena” (Antonia Fraser, Le sei mogli di Enrico VIII, Oscar Mondadori, pag. 129.)Per ognuna delle regine di Enrico VIII, Antonia Fraser crea una sezione apposita in cui rievoca i momenti più importanti delle loro vite, e all’inizio di ciascuna ce la presenta in un’istantanea fatta di parole, citazioni di chi scrisse e parlò su di loro. Frasi veloci che servono a dare un’idea della donna che si apprestava a diventare regina. Antonia Fraser, nel suo prologo, non vuole erigere muri tra le sei regine, o rinchiuderle ciascuna in un compartimento stagno a lei dedicato. Nella vita reale, tutte e sei furono legate in qualche modo, e il loro salire sul palcoscenico accanto al re era dettato da un fluire preciso di eventi concomitanti: “Anna Bolena fu al servizio di Caterina d’Aragona prima di prendere il suo posto, Jane Seymour era una delle dame del seguito di Anna Bolena, Caterina Howard faceva parte del seguito di Anna di Cleves, Anna Parr, che introdusse la sorella Caterina negli ambienti di corte, serviva Caterina Howard.” (Antonia Fraser, Le sei mogli di Enrico VIII, Oscar Mondadori, pag. 6) Ed è seguendo questo filo rosso nelle vite di queste sei donne, che l’autrice tratteggia le diverse personalità, mirando a far emergere la persona oltre che la regina, tramite le parole dei contemporanei che vissero a contatto con loro, o le stesse lettere e messaggi che Enrico dedicava loro copiosamente, soprattutto ad Anna Bolena.

mercoledì 20 marzo 2013

Le sei mogli di Enrico VIII – Il più bel principe della cristianità.


Cambiamo paese, atmosfera, ma rimaniamo più o meno nello stesso periodo in cui visse Michelangelo.  Nel periodo in cui lo scultore fiorentino crea la Madonna della Scala, il Crocifisso ligneo di Santo Spirito, in Inghilterra nasce un secondo figlio nella casa reale dei Tudor: è il principe Enrico. Correva l’anno 1491, un anno prima della morte di Lorenzo il Magnifico, e del clamoroso viaggio di scoperta di Cristoforo Colombo. Se l’erede al trono inglese, Arturo, fosse sopravvissuto all’infezione che lo colse a sedici anni, un anno dopo le nozze con la blasonatissima Caterina d’Aragona, il principe Enrico sarebbe passato alla storia forse per essere solo “il più bel principe della cristianità” e un dongiovanni affamato e inarrestabile. I secondogeniti tendono ad essere scavezzacollo e a dimenticarsi di frenare le loro passioni, di qualunque natura siano. Mi fa venire in mente l’odierno Harry, che risponde in pieno al ritratto stereotipato, pur senza vestiti, occasionalmente... La storia scelse un corso più movimentato di così. Enrico divenne Re con il numero VIII a undici anni, alla morte del padre, e iniziò la sua carriera di monarca occupandosi degli affari del regno e sposando la cognata, Caterina d’Aragona, tramite una dispensa papale che calmasse gli animi dubbiosi dei suoi sudditi e di quei ministri reali che volevano un’alleanza sicura tra Spagna e Inghilterra. La Spagna era una potenza temibile all’epoca, e conveniva ingraziarsela per evitare di trovarsi le sue navi conquistatrici nei propri porti. Fin qui, tutto “normale” e consueto. Enrico VIII, però, è tutto tranne che uno spirito “normale” e consueto. Il matrimonio con Caterina d’Aragona nasce soprattutto come alleanza politica, e non era stato consolidato e rallegrato da un erede maschio, ma da una figlia, Maria, che passerà alla storia per le sue caratteristiche “sanguinarie”.  Enrico VIII, come sempre aveva fatto in gioventù, cercava sollievo e consolazione in altre donne, senza farsi troppi problemi, mentre la regina sopporta stoicamente la caduta d’interesse del consorte e il peso di non aver saputo portare a termine il suo dovere principale, dare alla luce un Enrico IX. Finché, un giorno, una giovane dama di una famiglia inglese non troppo in vista, ma sostenuta da un’ambizione di lungo sguardo, Anne Boleyn, Ann Bullen, Anna Bolena (le trascrizioni della lingua parlata, all’epoca, non erano così precise, e i suoni venivano resi secondo grafie diverse) ritorna in patria dopo un lungo periodo d’educazione e istruzione passato presso la libertina e lussuosa corte francese.

lunedì 18 marzo 2013

Il tormento e l’estasi – L’estasi nel tormento…o forse solo più l’estasi


Per concludere il ciclo di post dedicati a questo libro impressionante (per mole, argomento, stile, profondità di sentimenti e significati), riporto qui una bellissima e-mail inviatami da Marzia, cui lascio la parola.



"Un lettore accanito di solito detesta sentirsi raccontare la fine di un libro.

Di solito anch’io odio le anticipazioni: voglio mordicchiare e gustare ogni paragrafo, masticare parola dopo parola.

Così invio questa mail a Loredana e lascio decidere alla “padrona di casa”.

  

Quella sera, insonne nel suo letto, pensò: <<La vita è stata bella. Dio non mi ha creato per poi abbandonarmi. Ho amato il marmo, sì, e anche i colori. Ho amato l’architettura, e anche la poesia. Ho amato la mia famiglia e i miei amici. Ho amato Dio, le forme della terra e del cielo, e anche la gente. Ho amato con tutta l’anima la vita, e adesso amo la morte che ne rappresenta la conclusione naturale. Lorenzo il Magnifico sarebbe contento: per me, le forze della distruzione non hanno mai prevalso sulla creatività>>.

(…)



- Le mie ultime volontà, Tommaso… - Le forze cominciavano a mancargli – Lascio la mia anima nelle mani di Dio… il mio corpo alla terra… le mie sostanze alla mia famiglia…

(…)

Calavano le ombre del crepuscolo. Solo nella stanza, Michelangelo cominciò a passare in rassegna le immagini di tutte le opere che aveva creato. (…)



E dopo tutto questo flusso d’immagini, la visione della basilica di San Pietro.

San Pietro… Vi entrò dal grande portale, avanzò per l’ampia navata nel vivido sole di Roma, ristette sotto il centro della cupola, sopra la tomba dell’Apostolo. Sentì la propria anima staccarsi dal corpo e ascendere in quel luminoso emisfero, diventando parte di esso: parte dello spazio, del tempo, del cielo e di Dio.



Irving Stone, Il Tormento e l’Estasi, pp. 827-828

Se non ha convinto il racconto, per quanto incompleto e frammentario, lo ammetto, dell'evoluzione di Michelangelo su questa terra, la descrizione della sua fine dovrebbe spingere a imbracciare e abbracciare questo libro per riempirsi di una nuova prospettiva più profonda verso la vita. Irving Stone, con tutta probabilità, non era lì accanto a Michelangelo a guardarne la conclusione, ma sembra la più verosimile, e anche la più desiderabile. Dopo una vita passata a esprimere e a incarnare il divino nei marmi, nelle tele, nelle pietre e sui muri di edifici altrimenti spogli e dimessi, quale migliore conclusione del tornare a fondersi con il suo creatore tramite l'opera architettonica che lo accompagnò fino alla morte, e che simboleggia l'elevazione diretta verso il cielo? 

mercoledì 13 marzo 2013

Il tormento e l’estasi – La potenza


Per me, leggere questo libro equivale ad un corso di storia dell’arte intensivo, con il bonus del 3D, almeno nell’immaginazione. E’ una biografia vissuta, sudata, sentita appieno, sia dall’artista, sia dal lettore. Lo scrittore ha tradotto in parole la passione, che non è solo quella di Michelangelo e dei suoi colleghi artisti, ma è anche di chi scrive, che ha animato ciascuno di loro al punto da farlo respirare nel corpo di chi legge. La base principale di Irving Stone per il suo impianto narrativo è stato quasi sicuramente l’opera massiccia di Giorgio Vasari, Le vite de'più eccellenti pittori, scultori e architettori, che fu contemporaneo di Michelangelo e di Andrea Del Sarto, e il sangue, la carne e la passione con cui descrive quegli uomini e quelle situazioni così lontane nel tempo e nello spazio devono arrivare dall’interno del suo animo di scrittore. Seguiamo il grande fiorentino mentre si destreggia tra un committente e l’altro, finché arriva a Roma, dove realizza un altro capolavoro universale, che in questi giorni è particolarmente sotto l’occhio delle telecamere, essendo ospitato nella Cappella Sistina. Il committente è Giulio II, uno dei Papi “meno tranquilli” che mi sembra di ricordare nella storia dei pontefici. Dai miei ricordi scolastici era un guerriero, più che un pastore, che non disdegnò di partecipare a guerre e a indossare l’armatura. Nella biografia di Michelangelo emerge anche come un uomo volitivo e poco paziente. L’esatta copia del suo contraltare artista…Giulio II aveva già affidato un lavoro imponente a Michelangelo: la costruzione della sua tomba, che prontamente il fiorentino aveva tradotto in un grandioso progetto, e in parte concretizzato. L’invidia e gli intrighi messi in atto da un altro artista, con tutta probabilità Bramante, geloso e timoroso di essere lasciato indietro, convincono il pontefice a interrompere bruscamente i lavori, perché farsi costruire la tomba da vivo potrebbe “portare sfortuna”. La reazione michelangiolesca è tutt’altro che pacata. Molla tutto, rabbioso e torna a Firenze, dove rimane, sordo a tutti i richiami (e anche ripetuti) di Giulio II, che vuole ancora affidargli progetti. E’solo l’insistenza martellante del gonfaloniere di Firenze,  Pier Soderini, preoccupato di tirarsi addosso l’ira papale (anche quella concreta di un esercito papale, non solo quella spirituale delle ammonizioni e dell’eventuale, terribile scomunica) che convince Michelangelo a tornare a Roma e a farsi affidare un'altra missione impossibile, l’affrescatura della volta della Cappella Sistina.

martedì 12 marzo 2013

Il tormento e l’estasi – Una vita immensa


Siamo accanto a Michelangelo, quando parla, si muove, respira l’arte che vive in lui, e se ne fa impadronire, quando questa pulsa potente e vuole esprimersi usando le braccia e lo spirito infaticabili del suo involucro di carne. In alcune pagine, l’autore è stato talmente profondo nel descrivere le sensazioni e i sentimenti di quest’uomo grandioso, da farci identificare totalmente con l’artista. Uno dei momenti più importanti della sua carriera spettacolare è stato quando Michelangelo si appresta a scolpire il celeberrimo David. E’ un’immagine talmente nota, da essere diventata universale. Non è più una scultura, è l’immagine dell’uomo. E che uomo! Michelangelo ha circa 26 anni quando “incontra” il blocco di marmo in cui si nasconde lo sguardo serio e i boccoli sodi del David. Ed è anche un blocco particolare: non è fresco di taglio, appena uscito di cava, ma è un ammasso informe, già aggredito e sbozzato da altri artisti illustri, come Agostino di Duccio e Bernardo Rossellino, qualche decennio prima. Entrambi l’avevano abbandonato abbastanza presto, ritenendo che da quella pietra non si potesse ricavare nulla, perché fragile e non di qualità eccelsa. Sicuramente non credevano che si sarebbe potuta modellare nella figura di Re Davide, come voleva la committenza, considerandola insufficiente per le dimensioni finali. Michelangelo vede tutto questo: il marmo già sbozzato, la vena pietrosa fragile in alcuni punti, un progetto iniziato male e lasciato tristemente a metà.

mercoledì 6 marzo 2013

Il tormento e l’estasi – Una biografia gigantesca per un gigante


Oggi ricorre il “compleanno” di un gigante italiano, uno dei pochi personaggi della nostra storia che riescono ancora a farci tenere la testa alta, quando parliamo di Italia: Michelangelo Buonarroti, nato il giorno 6 marzo 1475 a Caprese, in Toscana. Quando si pronuncia il suo nome, si dice tutto: David, Cappella Sistina, Pietà, Giudizio Universale, Rinascimento, Toscana, Medici, ecc. In una parola, in un nome, evochiamo secoli e oggetti di splendore artistico che hanno pochi rivali nel mondo, e quelli che ci sono, sono quasi tutti italiani come lui. Da quando “l’ho conosciuto a scuola”, è diventato uno dei miei artisti preferiti: la potenza fisica delle sue figure dipinte che sembrano balzar fuori da un momento all’altro, il respiro e la carne fortissima delle sue statue (e non perché di marmo: sotto quelle forme c’è vita, scorre sangue e pulsano muscoli di pietra) mi hanno sempre affascinato e zittito in contemplazione, anche solo attraverso le fotografie. Mi sono sempre domandata che razza di spirito avesse il creatore umano di quella bellezza carnosa e potentissima, insopportabile nella sua capacità di esprimere la parte divina dell’uomo . Soprattutto, era consapevole di essere un uomo che creava come una divinità? Ho trovato le risposte in questo splendido libro massiccio. Lo lessi al tempo del liceo, più volte, facendo concorrenza al Signore degli Anelli. Irving Stone era riuscito nel miglior intento possibile per uno scrittore: far vivere e pulsare un personaggio nella carta di un libro. Facciamo conoscenza con un Michelangelo ragazzino, un tredicenne che studia la propria faccia con le capacità di stima di un mastro costruttore: nota le sproporzioni della fronte, della bocca e del mento, e si rammarica perché “qualcuno avrebbe dovuto usare un filo a piombo”. Si sa che gli adolescenti sono specializzati nell’individuare i propri difetti, ingigantirli e farli mostruosi, ma questo ragazzino non pensa e non agisce in modo comune.

martedì 5 marzo 2013

…continuiamo con Il Signore degli Anelli…


Per quanto mi riguarda, non potevo considerare un altro esempio di trasposizione cinematografica, piuttosto “ingombrante”. Non tanto per il numero dei film, solo tre, ma per la fama e l’importanza del libro, Il Signore degli Anelli di J.R.R.Tolkien. Inizio subito a dichiarare che sono molto di parte. E’ uno dei libri che mi hanno impressionato prima e più a fondo di qualunque altro abbia potuto leggere. Un giorno, se troverò coraggio a sufficienza di misurarmi con la tradizione, gli dedicherò un’intera sezione. Era un appuntamento obbligato delle mie estati di ragazzina, per circa sei-sette anni. Finita la scuola, inauguravo le vacanze con Il Signore degli Anelli. La trasposizione cinematografica più famosa è quella del neozelandese Peter Jackson, negli anni 2000 – 2003. E’ probabile che ce ne siano state di precedenti, ma non sono riuscita a rintracciarle. Quando è uscito il primo film, la mia prima reazione è stata: “ah ah, adesso voglio proprio vedere”.  Non si affronta così impunemente un librone pieno come questo, voglio vedere cosa dimentica. Non sono andata al cinema, ma appena ho potuto ho preso la trilogia in VHS per gustarmela con calma a casa.  Mi sono disinteressata grandemente della critica al film perché volevo guardarlo e sentirlo con la mia sensibilità viziata di lettrice fanatica (anche) di Tolkien. E il risultato è stato che la sensazione di vuoto e di mancanza che percepivo nei film Harry Potter, qui si è fatta sentire molto poco. Ho amato tutti i personaggi, anche quelli che avevano facce completamente diverse da come le avevo immaginate: Orlando Bloom con le orecchie a punta e i capelli fluenti, per quanto mi rendesse un pochino perplessa, era convincente.
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