Hiro Tanaka si produce in sforzi veramente titanici per
essere originale, e non farsi prendere dall’omologazione così tipica del suo
paese d’origine. Uno di questi è persino...banale, se mi permettete l’evidente
contraddizione con la frase precedente. Sperimenta droghe. Riesce però, a farlo
senza farsi ingoiare, masticare e sputare via come un nocciolo inservibile,
come capita a molti. Le droghe gli fanno un effetto buffo, come sottolinea più
volte al suo migliore amico, Tetsu. Passa da un lavoro precario all’altro, e
spende profusamente per comprarsi vestiti alla moda, per poter “aumentare le
sue probabilità statistiche di accoppiamento”. Vive con il suo amico, in un
appartamento ricavato in un palazzo di uffici abbandonato. E concretizza il suo
dialogo interno rivolgendosi ad un proprio ipotetico “clone”, creato da qualche
scienziato pazzo del futuro con molto tempo libero. Nei momenti di “Caro clone, ti scrivo”, Hiro
si concede il lusso di guardare se stesso e la propria vita senza pesi, senza
giudizio, come se stesse davvero raccontando la vita di qualcun altro. Lo
consiglia e lo mette in guardia persino sulle allergie di cui potrebbe
soffrire:
“Caro Clone, te ne ho tenuta da parte una bella succosa: sarai
allergico a tutto quello che finisce per –aina...benzocaina, novocaina e, anche
se non l’ho mai provata, cocaina. L’ho sperimentato sulla mia pelle, mentre mi
facevo otturare una carie sulla poltrona del dentista, nel 1984. Non mi ricordo
molto: ho perso i sensi, e solo dopo ho scoperto che avevano dovuto farmi un’iniezione
di noradrenalina e un minuto di massaggio cardiaco sul pavimento del dentista.
[...] Quindi, se ti fai
male alle caviglie, procurati della morfina. O della codeina. O altri oppiacei.
Sono molecole più simpatiche”. (Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 108)
Sotto il sarcasmo, il paradosso e l’ironia che
costruiscono il modo di parlare e di atteggiarsi di Hiro, si sente una sorta di
affetto, di slancio per se stesso che non riesce a concretizzare nella vita
reale, e che viene riversato su questo suo “clone”, un altro se stesso che è
più facile da amare e accudire perché è più lontano, quasi distaccato.
“Caro
Clone, trovo poetico e beffardo che il tuo corpo rifiuti proprio le cose che
normalmente dovrebbero alleviare il dolore. È come se l’universo ti avesse
deliberatamente precluso l’utilizzo di tutti i rimedi rapidi: l’alcol ti fa
stare male, la droga ti rende paranoico e gli antidolorifici ti provocano
dolore. A questo punto, caro Clone, non mi sorprenderei se un domani scoprissi
che siamo allergici ai cuscini morbidi e ai divani comodi.” (Douglas Coupland,
Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 108)
Avevo detto che il sottotitolo del libro, romanzo d’amore e
fine del mondo, stava per farmi posare il libro per sopraggiunta irritazione.
Nello stato d’animo di chi accetta una sfida che lo mette a disagio, mi sono
disposta ad ascoltare il modo in cui sarebbe comparso l’amore nel romanzo. Fin
dalle prime pagine compare, sottoforma di ammirazione per le tre ragazze
popolari della scuola, quelle che guardano lontano dopo un’improbabile
conversione, e si fa strada in sordina. Hiro cerca amore, pur se travestito da
impulso all’accoppiamento, e lo riversa su destinatarie con alta probabilità di
rifiuto. Una di queste è Naomi, la sorella minore di Tetsu, che è un
personaggio altrettanto singolare. Sopravvive all’attentato nella metropolitana
del 1995 con il gas Sarin, perdendo un polmone, acquistando una cicatrice-marchio,
sviluppando un cinico distacco verso tutto ciò che sta al di fuori di lei
(famiglia, società, amici), e un atteggiamento aggressivo verso la vita e le
cose che vuole e anche quelle che non vuole. Come per Harry Potter, la cicatrice
diventa il marchio di fabbrica indesiderato di Naomi, una bandiera al contrario
da tirar fuori per tener lontano e ribadire il proprio desiderio di non essere
vincolata a niente e a nessuno. Naomi è solitaria e aggressiva, non cerca
affetti se non un sollievo puramente temporaneo ed egoistico. Hiro si
adatta...a modo suo. Quando improvvisamente la ragazza scompare, si accoda al
fratello deciso a cercarla per l’intero globo. Seguendo le sue tracce, i due
ragazzi si trovano improvvisamente catapultati a Vancouver, in Canada. Due
giapponesi con scarsissime conoscenze d’inglese, piombati in una realtà
completamente opposta, totalmente allo sbaraglio, più di quanto lo siano
normalmente nelle loro vite consuete. Il modo in cui Hiro descrive se stesso in
Canada e quello che vede in Canada, è davvero esilarante. Sembra sul serio l’alieno
caduto dalla navicella spaziale sulla terra senza i suoi super attrezzi o
superpoteri, che si aggira spaesato facendo una sciocchezza dopo l’altra, come
capita di vedere in molti film. Quella
che, secondo me, descrive perfettamente il carattere di Hiro, avviene quando il
ragazzo entra in un supermercato di Vancouver, leggendo i prezzi della merce
come se fosse la prima volta per lui in un negozio. Attratto da un bel pezzo di
carne, un arrosto di costata dal prezzo basso, lo compra d’impulso e lo porta
nella camera d’hotel che divide con Tetsu, posandolo all’esterno, sul
balconcino. Riporto qui la scena successiva:
“La mattina dopo, intorno alle
sei, io e Tetsu ci svegliammo di soprassalto. Da fuori arrivava un frastuono
che sembrava quello di un combattimento di galli. Andammo alla finestra e
aprimmo le tende: c’era una decina di gabbiani lanciati nella più sanguinolenta
delle orge culinarie. ‘Il mio arrosto!’ ‘Hiro, imbecille. Guarda che casino. E cos’è
che volevi farci, cospargerlo di pepe e cuocerlo per due ore?’ Aprii la porta a
vetri, ma sembrava che ai gabbiani non fregasse niente. La richiusi. ‘Mi
piaceva tanto quell’arrostino di costata.’” (Douglas Coupland, Dio odia il
Giappone, ISBN Edizioni, pag. 131)
Ho dovuto posare il libro per poter ridere
in santa pace, da sola, cercando di nascondermi sotto il sedile dell’autobus
per evitare internamenti improvvisi in apposite strutture. Hiro è questo: una
personalità in cerca di se stessa, che nel corso del suo viaggio (anche
interiore) commette...sciocchezze estreme come questa. Il soggiorno in Canada,
dopo l’arrosto e i gabbiani, è piuttosto breve e porta a sviluppi impensati.
Uno di questi lo farà riportare dritto dritto in Giappone, dove scoprirà
qualcosa di sorprendente proprio sulla sua ingessata e omologata famiglia. Non
c’è un finale felice, ma nemmeno uno infelice, alla vicenda. C’è...vita aperta.
Come spesso capita nella vita vera, non ci sono chiusure e soluzioni definitive
agli eventi. Anzi. Ci sono molte domande, molte sospensioni, molti tentativi di
evitare le spiegazioni e le conclusioni. Non c’è una spiegazione nemmeno decisa
e teorizzata del titolo, che afferma perentorio l’odio divino verso il
Giappone. E’ un personaggio particolare ad affermarlo, come sua convinzione
personale, e lo fa senza ulteriori spiegazioni, come se fosse un dato di fatto.
Chi è questo personaggio? Non preoccupatevi. E' scritto nel libro, garantisco. ^___^
Ti ho dato anche io il premio!
RispondiEliminahttp://paroledicioccolato.wordpress.com/2013/06/20/506/
Grazie, carissima! Vengo a ritirarlo con enorme piacere...
EliminaBene, ci fidiamo di questa affermazione. Del resto siamo ancora liberi di pensare… ;-) questo personaggio misterioso mi ispira: posso non condividere la sua convinzione, ma mi piace il suo modo di “esternare”.
RispondiEliminaPure la “vita aperta”: anche se nei libri un buon lieto fine va sempre bene (e ti ricordo che prima di me l’ha detto Bilbo Baggins – con tanto di brontolio di Sam: vissero felici e contenti, ma “dove?” è quello che mi domando sempre), a volte lasciare “in sospeso” è realistico: in fondo siamo un po’ tutti in sospeso…
...ah, il vissero felici e contenti è una delle frasi più ingannatrici che riesca a ricordare, finora. Esatto, ma dove? Questo è quello che mi dico sempre anch'io.
EliminaLa particolarità di questo libro è proprio il finale, sospeso, come le nostre vite sanno essere, a volte. E' un po' triste, ma...molto reale.
…ecco! Ricordi le nostre disquisizioni sul “romantico”? Un altro particolare – oltre al “dovere del libro” di portarti altrove (versione breve pro-estate:-D) – è proprio il lieto fine. Dal libro voglio il lieto fine. Proprio perché è un libro: viviamo ansie, difficoltà, problemi, ecc. già sulla nostra pelle ora dopo ora. So già che il famoso “e vissero felici e contenti” nella vita reale ha bisogno di parecchi ritocchi… almeno nel libro, lasciali felici e contenti, ovunque siano!
RispondiEliminaSì, di solito dovrebbe essere così. Ma in questo caso...più che felici e contenti, li ho lasciati lì. Forse con una piccola, piccola speranza di far cambiare le cose. E' tutto aperto!
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