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giovedì 20 giugno 2013

Dio odia il Giappone – L’originalità a tutti i costi

Hiro Tanaka si produce in sforzi veramente titanici per essere originale, e non farsi prendere dall’omologazione così tipica del suo paese d’origine. Uno di questi è persino...banale, se mi permettete l’evidente contraddizione con la frase precedente. Sperimenta droghe. Riesce però, a farlo senza farsi ingoiare, masticare e sputare via come un nocciolo inservibile, come capita a molti. Le droghe gli fanno un effetto buffo, come sottolinea più volte al suo migliore amico, Tetsu. Passa da un lavoro precario all’altro, e spende profusamente per comprarsi vestiti alla moda, per poter “aumentare le sue probabilità statistiche di accoppiamento”. Vive con il suo amico, in un appartamento ricavato in un palazzo di uffici abbandonato. E concretizza il suo dialogo interno rivolgendosi ad un proprio ipotetico “clone”, creato da qualche scienziato pazzo del futuro con molto tempo libero.  Nei momenti di “Caro clone, ti scrivo”, Hiro si concede il lusso di guardare se stesso e la propria vita senza pesi, senza giudizio, come se stesse davvero raccontando la vita di qualcun altro. Lo consiglia e lo mette in guardia persino sulle allergie di cui potrebbe soffrire:
 “Caro Clone, te ne ho tenuta da parte una bella succosa: sarai allergico a tutto quello che finisce per –aina...benzocaina, novocaina e, anche se non l’ho mai provata, cocaina. L’ho sperimentato sulla mia pelle, mentre mi facevo otturare una carie sulla poltrona del dentista, nel 1984. Non mi ricordo molto: ho perso i sensi, e solo dopo ho scoperto che avevano dovuto farmi un’iniezione di noradrenalina e un minuto di massaggio cardiaco sul pavimento del dentista. [...] Quindi, se ti fai male alle caviglie, procurati della morfina. O della codeina. O altri oppiacei. Sono molecole più simpatiche”. (Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 108)
Sotto il sarcasmo, il paradosso e l’ironia che costruiscono il modo di parlare e di atteggiarsi di Hiro, si sente una sorta di affetto, di slancio per se stesso che non riesce a concretizzare nella vita reale, e che viene riversato su questo suo “clone”, un altro se stesso che è più facile da amare e accudire perché è più lontano, quasi distaccato. 
Caro Clone, trovo poetico e beffardo che il tuo corpo rifiuti proprio le cose che normalmente dovrebbero alleviare il dolore. È come se l’universo ti avesse deliberatamente precluso l’utilizzo di tutti i rimedi rapidi: l’alcol ti fa stare male, la droga ti rende paranoico e gli antidolorifici ti provocano dolore. A questo punto, caro Clone, non mi sorprenderei se un domani scoprissi che siamo allergici ai cuscini morbidi e ai divani comodi.” (Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 108)

Avevo detto che il sottotitolo del libro, romanzo d’amore e fine del mondo, stava per farmi posare il libro per sopraggiunta irritazione. Nello stato d’animo di chi accetta una sfida che lo mette a disagio, mi sono disposta ad ascoltare il modo in cui sarebbe comparso l’amore nel romanzo. Fin dalle prime pagine compare, sottoforma di ammirazione per le tre ragazze popolari della scuola, quelle che guardano lontano dopo un’improbabile conversione, e si fa strada in sordina. Hiro cerca amore, pur se travestito da impulso all’accoppiamento, e lo riversa su destinatarie con alta probabilità di rifiuto. Una di queste è Naomi, la sorella minore di Tetsu, che è un personaggio altrettanto singolare. Sopravvive all’attentato nella metropolitana del 1995 con il gas Sarin, perdendo un polmone, acquistando una cicatrice-marchio, sviluppando un cinico distacco verso tutto ciò che sta al di fuori di lei (famiglia, società, amici), e un atteggiamento aggressivo verso la vita e le cose che vuole e anche quelle che non vuole. Come per Harry Potter, la cicatrice diventa il marchio di fabbrica indesiderato di Naomi, una bandiera al contrario da tirar fuori per tener lontano e ribadire il proprio desiderio di non essere vincolata a niente e a nessuno. Naomi è solitaria e aggressiva, non cerca affetti se non un sollievo puramente temporaneo ed egoistico. Hiro si adatta...a modo suo. Quando improvvisamente la ragazza scompare, si accoda al fratello deciso a cercarla per l’intero globo. Seguendo le sue tracce, i due ragazzi si trovano improvvisamente catapultati a Vancouver, in Canada. Due giapponesi con scarsissime conoscenze d’inglese, piombati in una realtà completamente opposta, totalmente allo sbaraglio, più di quanto lo siano normalmente nelle loro vite consuete. Il modo in cui Hiro descrive se stesso in Canada e quello che vede in Canada, è davvero esilarante. Sembra sul serio l’alieno caduto dalla navicella spaziale sulla terra senza i suoi super attrezzi o superpoteri, che si aggira spaesato facendo una sciocchezza dopo l’altra, come capita di vedere in molti film.  Quella che, secondo me, descrive perfettamente il carattere di Hiro, avviene quando il ragazzo entra in un supermercato di Vancouver, leggendo i prezzi della merce come se fosse la prima volta per lui in un negozio. Attratto da un bel pezzo di carne, un arrosto di costata dal prezzo basso, lo compra d’impulso e lo porta nella camera d’hotel che divide con Tetsu, posandolo all’esterno, sul balconcino. Riporto qui la scena successiva: 
La mattina dopo, intorno alle sei, io e Tetsu ci svegliammo di soprassalto. Da fuori arrivava un frastuono che sembrava quello di un combattimento di galli. Andammo alla finestra e aprimmo le tende: c’era una decina di gabbiani lanciati nella più sanguinolenta delle orge culinarie. ‘Il mio arrosto!’ ‘Hiro, imbecille. Guarda che casino. E cos’è che volevi farci, cospargerlo di pepe e cuocerlo per due ore?’ Aprii la porta a vetri, ma sembrava che ai gabbiani non fregasse niente. La richiusi. ‘Mi piaceva tanto quell’arrostino di costata.’” (Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 131)
Ho dovuto posare il libro per poter ridere in santa pace, da sola, cercando di nascondermi sotto il sedile dell’autobus per evitare internamenti improvvisi in apposite strutture. Hiro è questo: una personalità in cerca di se stessa, che nel corso del suo viaggio (anche interiore) commette...sciocchezze estreme come questa. Il soggiorno in Canada, dopo l’arrosto e i gabbiani, è piuttosto breve e porta a sviluppi impensati. Uno di questi lo farà riportare dritto dritto in Giappone, dove scoprirà qualcosa di sorprendente proprio sulla sua ingessata e omologata famiglia. Non c’è un finale felice, ma nemmeno uno infelice, alla vicenda. C’è...vita aperta. Come spesso capita nella vita vera, non ci sono chiusure e soluzioni definitive agli eventi. Anzi. Ci sono molte domande, molte sospensioni, molti tentativi di evitare le spiegazioni e le conclusioni. Non c’è una spiegazione nemmeno decisa e teorizzata del titolo, che afferma perentorio l’odio divino verso il Giappone. E’ un personaggio particolare ad affermarlo, come sua convinzione personale, e lo fa senza ulteriori spiegazioni, come se fosse un dato di fatto. Chi è questo personaggio? Non preoccupatevi. E' scritto nel libro, garantisco. ^___^


giovedì 6 giugno 2013

Dio odia il Giappone – ...e perché?

Dio odia il Giappone. Ma no, certo che no. Solo perché siete shintoisti/buddisti? E’ un brano del mio dialogo interno, che si è scatenato in una serie di ipotesi sulle possibili cause dell’odio divino verso questo paese, nel momento in cui ho posato gli occhi sulla copertina. A quel punto dovevo comprarlo, anche solo per scoprire l’interessante teoria che dava origine all’assunto di cui sopra. “Romanzo d’amore e fine del mondo”, dice il sottotitolo, che stava per farmi posare definitivamente il libro. Ho già detto che i romanzi d’amore mi irritano. Per la precisione, gli Harmony. Recentemente, ho scoperto che tutti i libri che parlano d’amore, dell’amore, finiscono per irritarmi. Metterò a fuoco questo sviluppo con una serie di riflessioni, che per il momento si agitano impazzite sotto forma di girini nell’acquitrino mentale che mi ritrovo sotto i capelli. Torniamo al romanzo. L’autore non è un giapponese: Douglas Coupland è un canadese che ha vissuto, studiato e lavorato per molto tempo in Giappone. Per dirla come i giapponesi, è “solo” un gaijin, uno straniero. Uno che viene da fuori, un non-giapponese. Poco importa il suo paese di origine: non è giapponese, per cui il suo valore è trascurabile, se non nullo. Nel libro, però, impersona  un adolescente giapponese, Hiro Tanaka, che diventerà il suo tramite per dare voce ad una serie di contraddizioni che si avvertono sotterranee nel libro. All’inizio affronta subito una questione spinosa, la religione, parlando della conversione di tre sue compagne di liceo, le classiche reginette desiderate, amate, odiate, imitate, ad opera di due missionari mormoni ospiti presso una famiglia vicina di casa di una delle tre.

Cioè, la religione...Cosa diavolo è la religione? Ma stiamo scherzando? Non voglio fare l’idiota, ma...avreste dovuto vedere lo sguardo di Kimiko (e anche di Rieko e Kaoru): era vacuo, spento, e quando passavano per le strade e i corridoi sembrava che non si concentrassero più sulle cose vicine, come le insegne dei negozi di noodle, o le persone e i veicoli in avvicinamento. Tenevano gli occhi puntati all’orizzonte, come se fossero sempre alla ricerca della prima stella nel cielo notturno. Scott aveva rubato quelle tre al mondo. Aveva annientato le loro essenze individuali e le aveva trasformate in...che so, profumatori per ambiente in carne e ossa.” (Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, ISBN Edizioni, pag. 8) 
Hiro Tanaka è la voce un po’ allucinata della vicenda: osserva tutto quello che ha intorno con lo stupore di chi non capisce cos’è il mondo e come sta andando avanti. Non lo capisce, ma lo giudica, lo disprezza, e cerca di allontanarsene, trovando modi diversi per essere se stesso, per essere originale e non cadere nella massificazione così tipica della società giapponese che lo circonda. 

venerdì 11 gennaio 2013

Storia proibita di una geisha – Un’apparente ironia e una determinazione feroce


 “Credo ci sia una grande ironia nella professione che ho scelto. Una per fetta geiko è sempre sotto i riflettori, mentre io ho trascorso la maggior parte della mia infanzia nascondendomi nel buio di un armadio. Una perfetta geiko fa uso di tutte le arti in suo possesso per soddisfare il suo pubblico, per regalare splendide sensazioni a ogni persona che incontra, mentre io ho sempre preferito attività solitarie. Una perfetta geiko è un elegante salice che si flette al servizio degli altri, mentre io sono sempre stata, per carattere, testarda, incline a contraddire tutti e molto, molto orgogliosa.” (Mineko Iwasaki con Rande Brown, Storia proibita di una geisha, Newton Compton Editori, pag.11) L’ho amata molto, subito. Un carattere indipendente, tignoso, una determinazione d’acciaio e talento da vendere. E questa sfida con se stessa, costante, immutabile, instancabile.  “Mentre una perfetta geiko è una maestra nel creare un’atmosfera di rilassato divertimento, io non amo particolarmente stare in compagnia. Una geiko che brilla non è mai, mai sola e io, invece, ho sempre preferito stare per conto mio.” (ibidem) A prima vista, si potrebbe dire che ha sbagliato mestiere. In realtà, era lei la geiko perfetta perché possedendo il talento artistico necessario e un atteggiamento caratteriale completamente all’opposto, ha saputo unire le due cose lavorando sui propri spigoli, senza fermarsi mai, ma rilanciando ogni volta con forza. Ha sublimato i suoi sforzi in un’espressione artistica unica, elevatissima, superando tutte le sue contraddizioni. “Bizzarro, vero? E’ come se avessi scelto deliberatamente la strada più difficile, quella che mi avrebbe costretto a confrontarmi con i miei limiti e a superarli. Effettivamente, se non fossi entrata nel karyukai penso che sarei diventata una monaca buddista. O chissà, una poliziotta.” (ibidem) In un paragrafo, Mineko fornisce la fotografia della propria essenza. Una vita al servizio dell’arte, che l’ha portata davvero a contrastare e a superare i propri limiti, in una lotta invisibile ma non meno feroce, per quanto combattuta sotto il cerone bianco e la seta voluminosa dei suoi kimono.

venerdì 4 gennaio 2013

Storia proibita di una geisha – Un mondo enigmatico


Il 2012 era l’anno del drago. Questo sarà l’anno delle donne…e io personalmente ho voluto iniziare da una figura particolare di donna, la geisha. Come dice molto bene una delle prime righe della definizione offerta da Wikipedia, le geishe sono ERRONEAMENTE assimilate a prostitute, soprattutto in Occidente. Sembra che noi Occidentali abbiamo una particolare predisposizione per commettere errori di questo genere…soprattutto quando si tratta di cose complesse e sfumate, difficili da inquadrare con un’etichetta sola, e possibilmente piccola e veloce. La geisha è una figura di donna molto raffinata, l’incarnazione della bellezza e delle arti, la padronanza del bello nell’aspetto, nelle forme e nei movimenti. Le foto che vediamo comunemente di geishe mostrano donne esili, dai volti bianchissimi da bambola come lineamenti e colori, coronate da acconciature spesse, pesanti, decorate e avvolte in kimono strettissimi e fantasiosi.  Non sembrano appartenere al nostro stesso mondo.
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