La copertina indica: un romanzo
acuto, comico, liberatorio. Aiuto! Non mi sento affatto di condividere queste
parole per descrivere questo scritto. Forse scriverei in copertina: grido di
terrore! Perché più che ridere mi sono trovata a piangere.
Leggendo e rileggendo queste
pagine ci troviamo faccia a faccia con il panico, la tragedia in cui la società
di oggi ci ha gettato, altro che situazioni comiche: genitori in crisi che
urlano la loro inadeguatezza di fronte al cambiamento repentino dei figli.
Il libro di Valentina Diana è un
puzzle di situazioni famigliari. Due presenze maschili in una famiglia dove
nessuno fa la parte del padre, dove non ci sono gerarchie (non ci sono o non ci
vogliono essere?) da rispettare e regole da seguire.
Il quadro dipinto è figli di
famiglie separate, che crescono in mezzo alla tecnologia, ma che si isolano dal
mondo diretto, quello delle relazioni sociali, del divertirsi con banalità
senza annoiarsi.
Troviamo mamme che si affidano a
manuali per allevare i figli, per cercare anche un solo semplice contatto con
loro. Paradossalmente c’è più comunicazione tra nonni e nipoti che tra figli e
genitori.
Ma a che punto stiamo arrivando?
Ma che generazione di giovani stiamo allevando? Ma che adulti e poi genitori
siamo diventati?
E’ un libro che mi ha suscitato
più di un’emozione: rabbia per i risultati che otteniamo, tristezza per quello
che abbiamo imparato e non sappiamo trasmettere, isterismo perché avrei preso a
pugni in tante occasioni la mamma descritta.
Leggetelo e in base al vostro stato avrete sicuramente
sensazioni diverse dalle mie, dalle parole che state assimilando.
Non so veramente se interpretarlo
come un urlo di disperazione per attirare l’attenzione della società, o un moto
di rivoluzione trincerato dietro alla rassegnazione di una società tecnologica
e menefreghista che ci sta portando via
i figli e la loro adolescenza.
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