lunedì 7 gennaio 2019

Massimo Rossi – L’ombra del bosco scarno

LoreGasp

Questo libro si è nascosto diverse volte, in casa mia. Approfittando dell’ampiezza e lunghezza della Cintura di Orione, se n’è sempre scivolato furtivo nei punti in cui meno lo raggiungevo. Quando si faceva vedere, con la sua copertina nero-azzurra, era solo per ricordarmi che non l’avevo ancora né acchiappato, né letto.

A questo ho messo fine a Natale, quando si è presentata la necessità di “riposarsi” dalla giornata di festa, ascoltando un’altra voce, altre storie. Meglio ancora se di tipo diametralmente opposto, come quella di Massimo Rossi, e L’ombra del bosco scarno.

Apparentemente, non c’è nulla che ricordi il Natale.

Se non una certa atmosfera da cartolina, dove tutto sembra sereno, leggiadro e luminoso. Ad un primo sguardo, almeno. Un’osservazione e un ascolto più attenti, e si capta la leggera nota stonata, si coglie la fissità del paesaggio, troppo ingessato per cambiare.

Siamo nella valle della Stille, e più precisamente un altopiano bello, fiorente e isolato. Qui vive la comunità di San Mathias, un villaggio di famiglie che si conoscono tutte da secoli, letteralmente. Il loro fondatore è un oscuro San Mathias, un santo le cui origini si perdono nel tempo antico, e di cui non si sa molto. Affascinato dalla bellezza e dalla prosperità di quella valle, da lui ritenuta plasmata direttamente dalle mani divine, il santo creò un Metodo per permettere alle prime quattro famiglie abitatrici della valle di vivere insieme in armonia, uniti e compatti contro il male, sostenendosi e proteggendosi gli uni con gli altri.

Nei secoli dei secoli.

L’incarnazione del paradiso in terra.


E perché questo paradiso non si corrompa a contatto con il male dei tempi che avanzano, e dei costumi morali che si rovinano, ci vuole l’isolamento naturale della valle, le poche regole ferree del Metodo di San Mathias, e qualcuno determinato a mantenere fisso ed immutabile lo status quo di perfezione, a tutti i costi.

Proprio tutti, i costi.

E’ un compito che Don Basilius, il parroco dei santi valligiani, si assume con fervore e che porta avanti negli anni con uno zelo encomiabile, oltre a magnifiche doti di manipolatore in nome del bene comune e più alto.

Tuttavia… lo zucchero di questo paesaggio da cake design comincia a coprirsi di piccole, piccolissime ma inesorabili crepe. Uno dei valligiani più vecchi, il signor Becker proprietario del maso omonimo, evidentemente stufo e stomacato dalla melassa imperante della comunità, infrange una delle sacre regole. Commette peccato. Un peccato mortale, un abominio, uno di quegli atti contro natura che attirano l’ira divina, i sacri fulmini, l’intero battaglione degli Angeli della Morte. Vende il suo maso ad un estraneo. UN FORESTIERO. Qualcuno che non è nato e cresciuto in quella valle isolata e isolazionista, nel seno avvizzito di una delle famiglie millenarie incollate alle rocce, insomma.

Ce n’è abbastanza perché Don Basilius si agiti e pensi a contrastare l’inevitabile calata dei demoni prevista da questa violazione terribile. Chiama in aiuto il resto della sua comunità, che risponde compatta all’appello del suo pastore. Saranno tutti uniti contro l’invasione, contro il male, non c’è pericolo: San Mathias e l’intera Forza Divina sono con loro.

Mentre l’invasore forestiero, un eccentrico stilista svizzero di nome Emerich Schuster, rileva e fa ristrutturare il maso Becker per ricominciare una vita di piaceri semplici con il suo giovanissimo amante Lucas, ignaro di aver suscitato un tale vespaio di agitazione nei suoi vicini di roccia, Don Basilius è costretto a occuparsi di altre grane. Non c’è pace tra gli ulivi, per il povero parroco zelante. (Anche se in alta montagna non c’è traccia di ulivi, vero.)

I suoi superiori nella gerarchia ecclesiastica gli affidano un caso di maltrattamenti familiari: una giovane donna etiope, Lidi, sta fuggendo dal marito violento che sta per uscire dalla galera, smanioso di riappropriarsi di lei, del loro figlio di otto anni, Aron, e di mettere in atto le proprie fantasie personali di vendetta. Don Basilius affida i fuggiaschi ad una delle famiglie più importanti, i Baumann: Dagomar, decano inchiodato ad una vita vegetativa in sedia a rotelle, e i figli Michael (con la moglie Greta e due bambini), Herald, Thomas e Barnabas.

Gli ospiti si integrano bene, i giorni scivolano leggeri, nonostante la presenza seccante del forestiero che si sta occupando dei suoi affari al maso regolarmente acquistato.

Allora, i guai in paradiso sono finiti?

No. Sono appena iniziati. Il piccolo Aron, che ha sviluppato un bel rapporto di amicizia con il giovane Barnabas, scompare un bel giorno nel bosco dov’era andato con il suo amico del cuore. Ricerche, panico, preghiere, accuse velate ai nuovi proprietari, gli araldi del Male che si sono già insediati facendo finta di nulla in questo Eden perfetto.

Il bambino ricompare, il giorno dopo, grazie a Barnabas. Apparentemente integro, ma traumatizzato. Non parla più. Per recuperarlo alla vita, Don Basilius si vede costretto ad accettare l’aiuto di Helena, una psicologa ex poliziotta, proveniente dalla peccaminosa città vicina, che si trasferisce per qualche tempo nel maso Baumann per poter svolgere al meglio il suo compito.

Da quando Helena mette piede in paradiso, a mano mano la copertura zuccherosa si riempie di crepe, per poi franare del tutto. Almeno ai nostri occhi di lettori, che avevamo già sentito un odore meno gradevole al di sotto della glassa splendente della comunità, generosamente fornita dall’inarrestabile Don Basilius.

Perché Dagomar Baumann è costretto a quella caricatura di vita? Cos’è capitato in montagna a lui e al giovane Barnabas, sopravvissuto a stento, storpiato da cicatrici incancellabili e da una personalità distorta, quasi ritardata? Perché Herald è così sicuro che il colpevole di tutto sia Emerich Schuster e la sua omosessualità? Il libro darà tutte queste risposte. E anche altre. Alcune più tristi.

La storia mi è piaciuta, ha saputo attirare la mia attenzione con il suo modo di raccontarsi. Esiste un certo sarcasmo molto ben camuffato nelle parole dell’autore. Descrive la bellezza del luogo in modo sottilmente beffardo. Nei confronti dei personaggi, soprattutto dei valligiani, ha un atteggiamento di sufficienza. Non si fa coinvolgere nei loro atteggiamenti pii, di buoni discepoli di un santo semi-oscuro, tutti dediti alla loro personale versione di Dio-Patria-Famiglia. Don Basilius è il principe degli ipocriti, e l’autore lo fa letteralmente brillare in questo ruolo, ma non disdegna le sue staffilate anche ai Baumann, pur distribuendole soprattutto tramite Helena. E’ un libro crudele, nella sua essenza. Ed è la crudeltà che nasce dal rinchiudere quello che non si comprende, non si riesce ad etichettare o che fa provare vergogna (come certi impulsi profondi) in una scatola troppo piccola con la chiusura ermetica. Se quello che è rinchiuso non ha una valvola di sfogo, si piega su se stesso e diventa mostruoso, di qualunque cosa si tratti.

È la crudeltà di pretendere che tutto rimanga ingessato come in una fotografia, che non si deteriori mai, che non cambi mai, che non si trasformi mai in altro. È la crudeltà del ritenersi superiori in virtù di un qualche credo e in diritto di scacciare e allontanare con disprezzo tutto quello che non si conforma.

In questo caso, la bellezza non solo non salva (come nel bellissimo titolo di Francesca Battistella), ma inganna e uccide. In molti modi.

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