Secondo appuntamento con l’Angolo Furioso di Belgravia, per
il ciclo Facce di Sicilianità. Dopo la denuncia coraggiosa di Luci dall’ombra
di Lucio Cucinotta, arriva un testo di ricerca molto approfondito, che guarda
ad alcune radici importanti della nostra storia letteraria.
Si tratta di
Subalternità siciliana – nella scrittura di Luigi Capuana e Giovanni Verga, di
una giovanissima professoressa italiana presso la University of Witwaterstrand
di Johannesburg in Sudafrica, Anita Virga. Un testo svelto e profondo allo
stesso momento, e un’autrice molto preparata e spigliata, che ieri ho avuto l’onore
di intervistare presso la Libreria Belgravia di Luca Nicolotti, a Torino.
Anita Virga è l’esempio di quell’Italia giovane, preparata e
coraggiosa che i nostri amati ministri non vedono proprio (non ripeterò tutte
le uscite desolanti a base di calcetto e bamboccioni dei mesi scorsi, da parte
di alcuni degli occupanti di Montecitorio), e che invece ci rende così felici e
rassicurati, quando sappiamo che esiste sul serio e sta lavorando con vigore e
pulizia in altre parti del mondo, costruendosi una propria strada.
Se gli occupanti di cui sopra fossero stati presenti ieri sera,
avrebbero ascoltato come nasce un libro sul serio e come il nostro patrimonio
letterario, una parte molto specifica di questo, è stato letto, mangiato,
meditato ed elaborato in una vita giovane ed espresso in un modo così serio e
profondo.
Il punto di partenza di questo libro è un interrogativo
molto personale, nella vita dell’autrice.
Siciliana per parte di padre, si
trova a vivere da sempre la sua “sicilianità” in modo molto naturale, anche scontato,
finché qualcosa non la spinge a cercare al di sotto di tutte le etichette e gli
stereotipi in cui si ritrova immersa, e che non le bastano. Tutto questo mentre
la sua vita corre secondo le scadenze tipiche di tutti i bambini e poi giovani
attraverso le scuole dell’obbligo, la scelta di un percorso di studi
personalizzato all’Università di Torino e poi portato avanti all’estero, negli
Stati Uniti e poi in Sudafrica.
Nella sua ricerca incontra due grandi scrittori siciliani,
Luigi Capuana e Giovanni Verga, che la convincono a studiarli da un punto di
vista molto specifico e originale: il rapporto tra servi e padroni secondo la
dinamica colonizzato-colonizzatore, la visuale dei subalterni verso la
prepotenza e l’arroganza cieche della classe dominante, che si rende e si crede
molto più forte di quello che è in realtà. Sfumature sottili, che sono l’applicazione
micro di quello che era capitato in Sicilia e nel Sud in generale all’epoca
dell’unificazione: un puzzle messo insieme incollando pezzi di natura diversa,
senza aspettare di farli conoscere e amalgamare, con la leggerezza e l’attenzione
di un rullo compressore che impone leggi nate in altre latitudini, con altre
esigenze, in luoghi e in culture che hanno presupposti e caratteristiche
totalmente diverse. Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, ambientato in
un altro posto del Sud, è un altro esempio di questo atteggiamento da
colonizzatore miope.
Il risultato è un contrasto continuo, un braccio di ferro in
cui il vincitore non è così scontato, e, quando vince, lo fa con le ossa rotte.
Si vede piuttosto bene in Capuana, ne Il marchese di Roccaverdina, in cui il
prepotente marchese protagonista, che dispone e predispone con arroganza delle
vite dell’amante e dei suoi subalterni, alla fine perde la ragione perché la
resistenza passiva e indignata di chi gli è inferiore è muta ma paziente,
inesorabile, e inarrestabile. Sono le forze della terra, quelle schiacciate
dalla mancanza di rispetto di chi crede di poter imporre le proprie leggi e i
propri capricci senza fine, che si fanno sentire e ricordano di non poter
essere domate così facilmente, o senza conseguenze.
Altre sfumature di questo rapporto con la subalternità,
attraverso il filtro dell’atteggiamento coloniale e colonialista, si trovano in
Verga, in una novella come Nedda e poi nel suo monumentale I Malavoglia. Nedda
rappresenta l’inizio di una crescita nello stile e nei contenuti di Verga, che
comincia a volgere lo sguardo verso le cosiddette classi popolari, abbandonando
via via l’atteggiamento paternalistico verso di esse (che si potrebbe
riassumere in un’etichetta veloce: “povera creatura, è di nascita inferiore,
non è colpa sua”) che nei suoi primi scritti era ancora piuttosto pronunciato.
Un sottoinsieme del rapporto colonizzatore-colonizzato è quello uomo-donna: la
donna deve sottostare a regole precise di comportamento, soprattutto obbedire
ai veti, sopportare, rinunciare a se stessa e alla sua originalità, per
rientrare nell’accettabilità. L’esempio dell’infrazione alla regola è la
fortissima Lupa protagonista di una novella famosissima, che mostra esattamente
come andare controcorrente senza accettare compromessi.
Questo è solo un assaggio di quello che troverete nel libro:
Anita Virga vi conduce in un bellissimo viaggio a ritroso nel tempo, in quella
Sicilia così fraintesa: considerata immobile e arretrata, mentre il suo
fermento, sia letterario sia fisico (nei vari moti di ribellione) era vivo e in
crescita. Riscoprirete lati di Verga e Capuana lasciati un po’ da parte,
soprattutto per il secondo scrittore, che oggi si conosce sempre meno, privando
i lettori di un tesoro originale, guarderete gli uomini dietro i ruoli di
autori e intellettuali, e ritroverete sfaccettature passate inosservate nei
personaggi, nei rapporti tra di loro e con i loro stessi autori.
E vi ritroverete a voler rileggere novelle e romanzi, come
sta capitando a me con Il marchese di Roccaverdina, per gustare sapori e odori
che vi erano sfuggiti, e la sottigliezza colorata dello stile di due autori
forti, solidi e fraintesi come la terra in cui sono nati.
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