La prima cosa che mi è saltata in mente, leggendo questo titolo (ah, i titoli!), è mettere in dubbio l’informazione semplice-semplice che veicola: davvero? Non c’è qualcosa sotto?
Il bello di essere lettori, non è solo aprire il libro, leggerlo e vivere una serie di sensazioni/mondi/viaggi/giri in giostra emozionale, ma anche di fantasticare sul titolo. Immaginarsi una storia ancora prima di leggere la storia. Io mi diverto tantissimo a fare questi brevissimi cortometraggi in un angolo del mio cervello mentre scruto il titolo.
Tornando alla storia vera e propria, scopriamo subito se Eleanor Oliphant sta davvero bene o no. Ce lo dice lei in persona, dandoci molti particolari. Un discorso liscio scorrevole, argomentato, corretto, forse un po’ troppo… a puntino. È la sensazione che ho avuto, ascoltando le sue parole, la sua voce che ho immaginato monocorde senza essere sgraziata o sgradevole, mentre mi guardavo intorno nel suo mondo in cui mi aveva invitato, suo malgrado.
L’ufficio ordinato, all’interno di un palazzo di uffici dall’aria efficiente, “lavorativa”, in cui svolge lo stesso lavoro di contabile con immancabile precisione ed efficienza da nove anni. Il gruppo eterogeneo di colleghi, sempre pronti a lavorare il minimo indispensabile, a bere tazze di tè, a spettegolare, e a guardare un po’ straniti e un po’ di storto l’aliena Eleanor, che non si veste alla moda, non perde tempo a fare battute sugli altri (che non sa fare, perché il suo senso dell’umorismo eguaglia quello di Bones, di Kathy Reichs), ed esibisce inquietanti cicatrici su un viso altrimenti regolare, gradevole.
La casa semplice, spartana, pulita il giusto (non ama tanto sfaccendare Eleanor), arredata un po’ a caso, con mobili presi da svendite, funzionali ma senza guizzi di personalità. La routine sempre uguale: casa-ufficio-pausa pranzo per conto proprio a fare cruciverba e consumare qualcosa di frugale preparato da sé a casa- ufficio- ritorno a casa- riposo, che si traduce in un libro o nell’ascolto di programmi radiofonici consigliati dalla BBC. Eleanor è una donna colta, che si esprime in una buona lingua scorrevole e apprezza l’uso corretto di grammatica e concordanze, e si stupisce genuinamente che gli altri non condividano questo suo gusto. Inutile sottolineare che, con questa puntualizzazione, questo personaggio acquista 1500 punti + bonus Premium, DeLuxe ed Extra presso la sottoscritta: questo mi ha provocato il leggero rimpianto di non aver letto il libro in lingua originale, per quanto la traduzione sia a dir poco esemplare. Mi sarebbe piaciuto osservare una Nazi-grammar inglese in azione. Siamo in Scozia, a Glasgow.
Il mercoledì, la sua routine subisce un’impennata: dopo l’ufficio, torna a casa, cena frugale come al solito, e poi si dispone ad attendere una telefonata, che ha il sapore e l’aspetto di una condanna a morte. È sua madre, che la chiama dal carcere. Una pausa gentile, dolce, un rimpianto, un momento di incoraggiamento? Niente di tutto questo. La signora Oliphant è un mostro di cattiveria, che adora sfogare le sue inadeguatezze in battute meschine e derisorie ai danni della figlia. Con voce dolce e cinguettante, le dice che è un errore della natura, un essere inutile, una vita rubata… per il puro desiderio di torturare e spezzare la figlia. Eleanor è abituata a questo abuso indecente, e se ne salva come può, limitandone i danni, murandosi nella corazza di invisibilità che si è costruita intorno, dal momento in cui le sono fiorite le cicatrici sul viso, o forse persino prima.
Arrivata al weekend, Eleanor si premura di rifornirsi di vodka. Le dovrà durare per tutto il sabato e la domenica, che lei è abituata a passare addormentata e stordita, bevendo dosi attentamente preparate di liquore e acqua. Non vuole rischiare di rimanere senza. Il lunedì, tutto ricomincia.
Ecco, questo vuol dire stare benissimo, per una ragazza di trent’anni di indubbie qualità come Eleanor, per quanto dall’aspetto magari démodé e un po’ bizzarra nel linguaggio (sempre appropriato e corretto, vorrei tornare a sottolineare).
Continuerebbe a stare così “benissimo”, se non capitassero un paio di situazioni che la tirano fuori, lentamente ma a forza, da questo guscio soffocante. Non si può nemmeno più chiamarlo zona comfort: è una bara sotto mentite spoglie.
Tutti i suoi colleghi le stanno lontani. Lei non socializza (dal vivo) e loro sono a disagio con lei. L’unico che le si avvicina è Raymond Gibbons, nuovo responsabile dell’helpdesk informatico dell’ufficio. Un classico “nerd”: sovrappeso, amante del cibo spazzatura, un po’ goffo, ma di indole aperta, gentile. Insieme si trovano ad avere la più strana delle avventure: soccorrere un anziano preda di un malore in strada, mentre torna dal supermercato.
Questo brevissimo accadimento, che non dovrebbe lasciare molte tracce, oltre alla consapevolezza di aver aiutato un altro essere umano (e nelle condizioni di Eleanor questo è già un passo epocale) e di aver dimostrato un cuore, è l’anello di una lunghissima catena di piccoli eventi e piccoli passi, che portano a trasformare totalmente la traumatizzata giovane in apnea, e la sua vita. Non sto a raccontare come si svolge questo processo di lento rifiorire quasi inconsapevole, perché è necessario gustarselo in silenzio.
Un po’ trattenendo il fiato, come ho fatto io, sempre in bilico tra il desiderio di vedere frantumata la madre mostro e la paura che ad Eleanor potesse capitare qualcosa di brutto, ancora peggiore della causa delle sue cicatrici.
Non mi è capitato tanto spesso di fare il tifo per un personaggio. Amarlo, odiarlo, desiderarne la morte o la felicità, criticarlo, coprirlo di insulti, elogiarlo, esaltarlo, e così via nella scala delle interazioni umane, sì.
Fare il tifo partecipe perché Eleanor non si spaventasse, perché l’autrice non le infliggesse prove troppo dure, perché Raymond non la prendesse in giro, perché i colleghi la rispettassero, perché si fidasse un po’ di più di se stessa e mettesse da parte quell’orribile anestetico a forma di liquore, no.
Almeno non prima di Eleanor.
Sono stata felice di aver letto questo libro. L’ho chiuso con una sensazione di felicità e di incoraggiamento, e di “missione compiuta”, come se un ciclo si fosse concluso, un lavoro fosse portato a termine, un giorno nuovo fosse rinato.
Se cercate un sostegno da una storia quasi normale, con il suo disagio interiore e tanta forza nascosta, allora procuratevi questo libro e lasciate che vi curi le piccole ferite, che vi risvegli la volontà di essere partecipe, di cambiare, di voler osare di farcela.
Seguite Eleanor, inteneritevi con Raymond, non fatevi rattristare dalla mancanza di glitter e di azione spericolata della storia.
Il coraggio di affrontare un aggressore interno, che ha il volto di tua madre, o di te stesso, è lo stesso che ci vuole per lottare contro un picchiatore, un terrorista, un ladro, un assassino.
Ha solo un segno diverso.
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