… inizio il post con una piccola avvertenza. Se avete già
letto Vicarìa, potete andare avanti. Se non avete letto Vicarìa, fermatevi qui,
uscite/aprite il pc e andate in libreria, procuratevelo subito e leggetelo.
Poi, procedete con l’acquisto de Il giardino degli inglesi, dato che ci siete.
Lessi Vicarìa due anni fa, per la rubrica radiofonica
Scrittori Made in Campania, per Radio Piazza Live, e ne rimasi stregata fino in
fondo. Paragrafi del libro, dialoghi e caratterizzazioni ogni tanto mi si
affacciavano alla memoria. Un bellissimo atto di nostalgia, che mi piaceva
rinnovare. Per quanto fosse una storia auto-conclusiva, Vicarìa lasciava una
porta aperta. Questo si traduce, in un lettore, in una spasmodica attesa del
resto. Una preghiera quotidiana e anche imperiosa, che lo scrittore e l’editore
dessero alle stampe nottetempo il libro con le chiavi, le soluzioni, i nomi, i
visi tenuti velati.
E la porta aperta di Vìcaria introduce ad un giardino. Il
giardino degli inglesi di cui si parla è un cimitero. Esiste, a Napoli, un cimitero
monumentale, ilCimitero acattolico di Santa Maria della Fede, che fu costruito su impulso
della forte comunità britannica sul territorio, nel 1821, e che ha una storia
piuttosto interessante, nelle sue pietre.
Ed è qui che arriva Peter Darshwood per trovare il suo posto
definitivo accanto all’amatissima sorella Emma, l’angelica Signorina Darshwood
insegnante di musica dei piccoli di Vicarìa, unica luce nel buio senza requie
di quel posto altamente ipocrita. Nel libro precedente, Emma fu uccisa da Michele
Florino, il sadico soprintendente del Serraglio, figura di copertura e di
distrazione da un demone ben più altolocato e socialmente accettabile. Spinto
da un dolore insopportabile, il fratello piombò a Napoli per scoprire le vere
cause dell’omicidio, e finì per scontrarsi a duello con Domenico De Consoli, l’anima
nera in redingote inappuntabili, il progettista esecrabile della soppressione
di Emma. (Per chi ha letto Vicarìa: rileggetevi il brano del duello, e
stupitevi di come l’autore lo ha costruito in modo insuperabile.)
Tutto finito, quindi. I giovani Darshwood sotto terra, gran
cordoglio della comunità inglese di Napoli, che si stringe intorno alla sorella
sopravvissuta, la maggiore Frances Darshwood, sposata ad un funzionario
importante, Giacomo Petrella. L’esimio dottor De Consoli, al centro di questo
increscioso caso, può continuare a essere stimato, temuto, adorato dai suoi
pari e dai suoi clienti danarosi, e dai piccoli infelici che la sua orribile
carità cattura immancabile, traviandoli con il sorriso dolce e accondiscendente
del predatore troppo forte e troppo furbo.
In realtà, non è finito proprio niente. Gioacchino Fiorilli,
il Commissario del quartiere che non aveva esitato a rischiare fortissimo in
prima persona per la giovane Emma e l’ancor più giovane vittima Antimo, non è
disposto a chiudere così la vicenda, sapendo nel proprio cuore che Domenico De
Consoli è ancora vivo, libero e sorridente di uccidere per interposta persona,
e fare il male. Apparentemente, è solo in questa caccia al predatore che non è
mai finita. I suoi colleghi sono impegnati in altro, c’è talmente tanto da
raddrizzare o da far finta di raddrizzare, in quel quartiere turbolento, che si
girano indifferenti per la loro strada.
Napoli, però, non è riuscita a sterminare tutti i Darshwood.
Poco dopo l’omicidio di Peter, arriva Edward Darshwood, stimato pittore ritrattista
della buona società inglese, spinto dallo stesso dolore del figlio, in cerca di
risposte e di pace per se stesso: in pochi mesi ha perso la figlia perfetta, la
preferita, e il giovane erede, amato e temuto allo stesso tempo. Da straniero,
e per di più da padre sconvolto per il duplice lutto, il pittore fa troppe
domande, è troppo diretto, vuole tutte le risposte subito, vuole quel nome,
vuole conoscere gli ultimi momenti del figlio, le sue ultime frequentazioni. Cerca
un’alleata in Frances, che non lo segue e lo frena nella sua corsa cieca e
sbadata verso la verità e la giustizia. A Napoli non ci si muove così, con la
spada in pugno e scintillanti di sdegno e di furia riequilibratrice: si finisce
in un pantano molle che toglie le forze, disarma, stordisce, distrae, e se non
si ritorna sui propri passi, si rivela mortale.
Edward Darshwood, tuttavia, non si muove completamente al
buio, per quanto sempre troppo goffamente per i modi borbonici. Sa che esiste un
fascio di lettere, una corrispondenza appassionata e affettuosa tra Emma e
Peter, che contiene la chiave e il nome, o i nomi, risolutori. Tuttavia, non sa
dove si trovino le lettere, che cerca in tutti i modi. Peter le aveva nascoste
in un modo ingegnoso, che rivelò tempo prima ad una persona insospettabile, e
fuori dal giro dei personaggi di spicco: Martha Frank, giovane e impetuosa
moglie di Joseph Frank, un altro medico importante, collega di De Consoli, ma
solo di professione. Il suo animo e il suo spirito sono improntati alla ricerca
della verità e dell’onestà più rigorose.
Nella sua ostinazione, il pittore inciampa letteralmente in
una piccola testimone, una giovanissima fioraia dodicenne di nome Palmina, che
dimostra di aver conosciuto suo figlio, rivelandoglielo nel suo modo selvatico
e diffidente. Gli adulti non sono teneri con i bambini, e quando li trattano
bene vogliono qualcosa da loro, e non si tratta mai di uno scambio buono o
anche solo alla pari. Tuttavia, quella “pista investigativa” lo porterà a
scontrarsi con un lato oscuro della città che lo farà arretrare con il cuore a
pezzi.
D’ora in avanti, è necessario che acquistiate il libro e
seguiate, passo dopo passo, tutti i personaggi nella loro ricerca. Alcuni, come
abbiamo visto, cercano la verità, la pace, la giustizia, una ragione con cui
mettere fine ad un dolore insensato. Altri, come De Consoli, cercano solo la
soddisfazione puramente egoistica da predatore mai sazio dei propri appetiti, e
pazienza se sono discutibili o si avventano sulla fragilità, la vulnerabilità e
il corpo altrui. Danni collaterali, trascurabili.
Nell’esercizio del proprio
potere, che sia sociale o personale, vale solo la vittoria prepotente sugli
altri, ottenuta con il gioco scaltro e seducente del Male paziente e affamato. De
Consoli, l’anima nera in abiti immacolati, non è mai violento, se non nei
propri impulsi: è seducente, intelligente, educato, dai modi impeccabili e
santi. Mai una parola fuori posto, un gesto che potrebbe perderlo… tutto è
sempre molto calcolato. Al punto che può persino permettersi di sbilanciarsi su
qualche punto e gustare il sapore pungente e inebriante dell’essere quasi
scoperto.
Quasi, però. De Consoli è il Male intelligente e paziente.
Scrivo su di lui, e mi concentro su di lui. È il personaggio
più odioso, che ispira disgusto e anche ammirazione. Tanta intelligenza e
raffinatezza pervertite in quel modo. Come in Vicarìa, non ho mai smesso di
cercarlo nelle pagine, anche quando non c’era, per poterlo odiare. E quando
compariva, mi aspettavo da un momento all’altro di vedere il viso tirato e
appassionato di Gioacchino Fiorilli, l’unico che può stargli alla pari perché
lo legge meglio di un libro aperto, e che meglio resiste ai giochetti seducenti
del De Consoli, che vorrebbe indurlo in tentazione, vorrebbe farsi prendere da
lui, ma ha bisogno di testarlo, di sapere se il Commissario è davvero all’altezza.
E Fiorilli lo è. Quando non indossa la pesante cappa e la
scintillante spada da tutore dell’ordine, con il suo animo coraggioso che sa
leggere il Male, lo potrebbe incastrare, amputargli gli artigli da corruttore.
Non lo fa, la sua onestà e l’obbedienza alla Legge gli inceppano i meccanismi.
Purtroppo, essere dalla parte etichettata come “giusta” non sempre significa
essere liberi di far tutto, per essere “giusti”.
Intorno, c’è Napoli. Il suo spirito borbonico, la sua
lentezza, la sua bellezza placida che copre il buio, la sua spiccata tendenza
al commercio, al baratto, di qualunque genere, l’accordo tra le parti per fare
in modo che tutto stia com’è, le alleanze anche improbabili per raggiungere
mete, risultati, bottini di oro o di carni. Gli innumerevoli lacci molli
lasciati cadere intorno alle caviglie di chi va troppo in fretta, in direzione
contraria, o di chi vuole rovinare uno status quo soddisfacente per tanti,
soprattutto quelli che amano nascondersi tra le ombre. Si rischia di rimanere
affascinati e invischiati da questo mondo così particolare, che segue leggi
tutte sue, che ti sorride con gli artigli sguainati, invitandoti a scegliere l’opzione
adatta.
Non lo avrei creduto possibile, ma Il giardino degli inglesi
ha superato in crudeltà, impulsi sanguigni e languore delittuoso l’atmosfera a
tratti morbosa di Vicarìa. Ci sono meno spade sguainate, meno sangue versato
del primo, ma molta più tortura psicologica, più asprezza e cattiveria nei
rapporti umani, più giudizi e condanne senza appello, e non mi riferisco solo
all’ambiente legale.
Anche lo stile dell’autore si è ulteriormente raffinato,
espanso. Dialettale e schietto nella brutalità infinita dell’abiezione umana, e
sottilmente derisorio nelle affermazioni ipocrite scambiate tra i pari dell’alta
società, pomposo e inutile nei magistrati assurdamente compiaciuti del proprio
piccolo e sterile potere, esercitato sui deboli e gli ignoranti.
Leggere Vicarìa e Il giardino degli inglesi equivale ad un
soggiorno di formazione nella conoscenza dell’animo umano. Preparatevi a
ritornare nelle vostre realtà più stanchi, ma più arricchiti.
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