LoreGasp
Il titolo di questo libro, terza tappa del Giro Letterario d'Italia, mi ha sempre incuriosito. Spesso l’ho sentito citare, anche in qualche film, con scherno e disprezzo verso il cosiddetto “problema meridionale”, chiamato anche il Mezzogiorno e in altri modi molto meno aulici, soprattutto da quando è emersa una certa corrente di pensiero politico (chiamiamola così, manteniamo un certo decoro nel blog). Alla spiegazione del titolo Carlo Levi dedica due pagine dense iniziali, ma la vera comprensione di queste sue parole si raggiunge spingendosi all’interno di questo romanzo, che io ho considerato agevole e difficile, attraente e noioso, magico e piatto, ottuso e intelligente, leggero e severo, ricco e desolante. “Noi non siamo cristiani, - essi dicono [i contadini lucani], - Cristo si è fermato a Eboli - . Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono al di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo , che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. [...] Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli. “ (Cristo si è fermato a Eboli, pagg.3-4, Einaudi). Questa è la traccia e la mappa per addentrarsi nel mondo di questo romanzo, vera e propria esplorazione, fisica e umana. Carlo Levi è un laureato in medicina, torinese, che si trova a vivere in quel tempo difficoltoso e protervo che era il fascismo e in particolare gli anni della Guerra d’Africa.
Gli italiani si stavano infilando in quell’avventura bizzarra che era il colonialismo di un continente sconosciuto, credendo forse di imitare inglesi e francesi che avevano già costruito i loro imperi economici in altre terre, ma sotto l’euforia e la propaganda, si sente già l’incredulità di un tipico atteggiamento italico: “lo faccio ma io non ci credo!” Si vede mandare al confino in Lucania, a Gagliano, di punto in bianco. Il regime, per qualche sua interpretazione bizzarra, non lo gradisce e lo seppellisce in mezzo al nulla. “A Roma ti vogliono male”, commentano i notabili del paese, con quell’atteggiamento di odio impotente e semi-rassegnato che li caratterizza così profondamente. Lungi dall’esserne colpito o disperato, o sentirsi offeso o degradato, Carlo (don Carlo, come viene chiamato qui)si dispone a vivere la propria vita, concentrandosi su una delle sue passioni principali, la pittura. In quel mondo lento, estraneo e completamente chiuso, lontano dai centri nevralgici e dalle manifestazioni del regime, si concentra soprattutto sulla pittura. Ed è proprio l’abitudine ai pennelli che lo porta ad osservare da vicino e ad esplorare le caratteristiche di un mondo contadino selvaggio e arido nell’aspetto e nell’animo delle persone. Essendo medico, per quanto di scarsa esperienza e applicazione, viene ricercato dai contadini, convinti che lui, il dio straniero approdato alle loro rive, sia l’unico in grado di aiutarli e di recare conforto alle loro vite perennemente offese e raschiate dai signorotti del paese che li vessano e li disprezzano in ogni modo, dallo “Stato”, entità lontana e minacciosa, grande mostro sadico e succhia soldi. Non c’è molta azione nella vita di un confinato, così come in questo paesetto arroccato su argille e rocce alte e pericolanti, dove l’immobilismo e il senso d’impotenza che scatena odi mal repressi avviluppa e fa ammalare le persone, e prosciuga seccandoli i paesaggi. Povertà, immobilismo, scarsa capacità di reazione e una sorta di paganesimo spirituale, guidano soffocando le interazioni di queste persone, che più che vivere trascinano le loro esistenze odiando in catene. Cosa odiano? La vita, lo Stato, gli altri, se stessi. Odiano, si lamentano, ma sopportano stoici. Resistono per definizione, reprimono i sentimenti, aggirano i problemi, ma sono rispettosi, hanno forte il senso del comportamento corretto, dell’ossequio e dell’ammirazione verso chi considerano migliore di loro. Come Verga, Levi ci immerge nella polvere di Gagliano e ci presenta ad uno ad uno, con precisione, decine di personaggi, che si avvicendano sul palco con i loro abiti stracciati, i modi servili o tranquilli, i ghigni di degnazione, l’indolenza acquisita alle spalle altrui, e noi li guardiamo con stupore, rabbia, compatimento, derisione, ma nessuno di loro ci lascia indifferenti. Ci abituiamo all’atmosfera stregonesca evocata da certe donne, chiamate apertamente streghe, per l’animalità ritrosa delle loro azioni, e consideriamo normale che in certe grotte si agitino spiritelli allegri e terribilmente dispettosi come i “monachicchi”. Ho ascoltato in silenzio tutte le loro storie, e la voce dolce e obiettiva di don Carlo che descrive senza mai giudicare. Mi sono arrabbiata io di fronte all’incredulità e all’ignoranza altrui, davanti ai gravi danni provocati ai danni dei meno furbi o dei più deboli, mentre l’autore compativa senza essere pesante o paternalista. Quando, alla fine del libro, una macchina arriva per portarlo via, e ho chiuso le pagine, ho sentito un groppo in gola. Non volevo lasciare Gagliano, per quanto desolante e arretrato fosse. Cosa ne sarà ora, di tutti loro, lasciati ancora una volta a se stessi?
Il titolo di questo libro, terza tappa del Giro Letterario d'Italia, mi ha sempre incuriosito. Spesso l’ho sentito citare, anche in qualche film, con scherno e disprezzo verso il cosiddetto “problema meridionale”, chiamato anche il Mezzogiorno e in altri modi molto meno aulici, soprattutto da quando è emersa una certa corrente di pensiero politico (chiamiamola così, manteniamo un certo decoro nel blog). Alla spiegazione del titolo Carlo Levi dedica due pagine dense iniziali, ma la vera comprensione di queste sue parole si raggiunge spingendosi all’interno di questo romanzo, che io ho considerato agevole e difficile, attraente e noioso, magico e piatto, ottuso e intelligente, leggero e severo, ricco e desolante. “Noi non siamo cristiani, - essi dicono [i contadini lucani], - Cristo si è fermato a Eboli - . Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono al di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo , che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. [...] Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli. “ (Cristo si è fermato a Eboli, pagg.3-4, Einaudi). Questa è la traccia e la mappa per addentrarsi nel mondo di questo romanzo, vera e propria esplorazione, fisica e umana. Carlo Levi è un laureato in medicina, torinese, che si trova a vivere in quel tempo difficoltoso e protervo che era il fascismo e in particolare gli anni della Guerra d’Africa.
Gli italiani si stavano infilando in quell’avventura bizzarra che era il colonialismo di un continente sconosciuto, credendo forse di imitare inglesi e francesi che avevano già costruito i loro imperi economici in altre terre, ma sotto l’euforia e la propaganda, si sente già l’incredulità di un tipico atteggiamento italico: “lo faccio ma io non ci credo!” Si vede mandare al confino in Lucania, a Gagliano, di punto in bianco. Il regime, per qualche sua interpretazione bizzarra, non lo gradisce e lo seppellisce in mezzo al nulla. “A Roma ti vogliono male”, commentano i notabili del paese, con quell’atteggiamento di odio impotente e semi-rassegnato che li caratterizza così profondamente. Lungi dall’esserne colpito o disperato, o sentirsi offeso o degradato, Carlo (don Carlo, come viene chiamato qui)si dispone a vivere la propria vita, concentrandosi su una delle sue passioni principali, la pittura. In quel mondo lento, estraneo e completamente chiuso, lontano dai centri nevralgici e dalle manifestazioni del regime, si concentra soprattutto sulla pittura. Ed è proprio l’abitudine ai pennelli che lo porta ad osservare da vicino e ad esplorare le caratteristiche di un mondo contadino selvaggio e arido nell’aspetto e nell’animo delle persone. Essendo medico, per quanto di scarsa esperienza e applicazione, viene ricercato dai contadini, convinti che lui, il dio straniero approdato alle loro rive, sia l’unico in grado di aiutarli e di recare conforto alle loro vite perennemente offese e raschiate dai signorotti del paese che li vessano e li disprezzano in ogni modo, dallo “Stato”, entità lontana e minacciosa, grande mostro sadico e succhia soldi. Non c’è molta azione nella vita di un confinato, così come in questo paesetto arroccato su argille e rocce alte e pericolanti, dove l’immobilismo e il senso d’impotenza che scatena odi mal repressi avviluppa e fa ammalare le persone, e prosciuga seccandoli i paesaggi. Povertà, immobilismo, scarsa capacità di reazione e una sorta di paganesimo spirituale, guidano soffocando le interazioni di queste persone, che più che vivere trascinano le loro esistenze odiando in catene. Cosa odiano? La vita, lo Stato, gli altri, se stessi. Odiano, si lamentano, ma sopportano stoici. Resistono per definizione, reprimono i sentimenti, aggirano i problemi, ma sono rispettosi, hanno forte il senso del comportamento corretto, dell’ossequio e dell’ammirazione verso chi considerano migliore di loro. Come Verga, Levi ci immerge nella polvere di Gagliano e ci presenta ad uno ad uno, con precisione, decine di personaggi, che si avvicendano sul palco con i loro abiti stracciati, i modi servili o tranquilli, i ghigni di degnazione, l’indolenza acquisita alle spalle altrui, e noi li guardiamo con stupore, rabbia, compatimento, derisione, ma nessuno di loro ci lascia indifferenti. Ci abituiamo all’atmosfera stregonesca evocata da certe donne, chiamate apertamente streghe, per l’animalità ritrosa delle loro azioni, e consideriamo normale che in certe grotte si agitino spiritelli allegri e terribilmente dispettosi come i “monachicchi”. Ho ascoltato in silenzio tutte le loro storie, e la voce dolce e obiettiva di don Carlo che descrive senza mai giudicare. Mi sono arrabbiata io di fronte all’incredulità e all’ignoranza altrui, davanti ai gravi danni provocati ai danni dei meno furbi o dei più deboli, mentre l’autore compativa senza essere pesante o paternalista. Quando, alla fine del libro, una macchina arriva per portarlo via, e ho chiuso le pagine, ho sentito un groppo in gola. Non volevo lasciare Gagliano, per quanto desolante e arretrato fosse. Cosa ne sarà ora, di tutti loro, lasciati ancora una volta a se stessi?
la spinosa "questione meridionale" è lo storico malessere di un' Italia negletta ma secondo me anche neghittosa
RispondiEliminail mio commento lo sto preparando secondo una mia ottica
il tuo post è molto significativo e tratteggia bene lo spirito dell'autore-artista del colore
simonetta
Io ammetto che non ho mai capito fino in fondo dov'era il problema. Forse perché ho sempre pensato che si potesse risolvere tutto, per quanto difficile e pesante da gestire. Sforzandosi, si riesce a risolvere problemi...leggendo il libro, però, mi sono resa conto di quante altre dimensioni ci siano in questa Italia, che non sono state prese in considerazione. I contadini sono rappresentanti di un mondo a parte, con le sue regole, che non è mai stato assimilato o invitato ad assimilarsi: i Romani e lo Stato sono arrivati a prendere e a imporre, senza tener conto di niente. Il risultato è stata una resistenza a oltranza e una devozione indirizzata ai briganti e a coloro che combattevano contro lo Stato, visto come una presenza ingombrante da cui fuggire e da tenere solo lontano. Sono sentimenti anche molto complessi, contraddittori e difficili da rendere in poche parole. Levi ci ha messo un intero romanzo e ancora penso che ci sia molto altro da dire.
EliminaPeccato non essere riuscta a seguirvi in questa tappa, il testo mi interessava moltissimo, lo dovrò recuperare, anche perché trovo che gran parte della storia del Novecento permetta un approccio più completo e significativo proprio attraverso i libri: narrazioni di storie vere o verosimili nella cornice degli eventi più significativi del seclo sono (almeno così è per me) più incisivi e più capaci di scolpire le informazioni e i ricordi rispetto a tanti documentari e saggi.
RispondiEliminaSe puoi, recuperalo, fosse anche a Natale 2014: è un testo forte, pesante, qualche volta tocca anche punte angoscianti, ma è veramente molto importante per chi vuole capire un po' meglio il nostro Paese. Grazie a questa lettura, sono riuscita a venire a capo di alcuni piccoli misteri nella mia stessa famiglia (mia madre è nata in uno di quei paesini, troppo piccolo e arroccato sul suo spuntone di roccia per essere nominato, ma è in mezzo a quelli che compaiono nel romanzo), e a spiegarmi molte cose dell'Italia che non riuscivo proprio a far quadrare. Come hai detto tu, questi romanzi scritti con la propria pelle vanno a segno e illuminano molto di più di tanti documentari lunghi e dettagliati.
EliminaComplimenti per la tua recensione. Hai colto un punto fondamentale: la distanza. In molte zone del sud i conquistatori sono arrivati, hanno annesso territori al regno, hanno preso ciò che potevano e poi via, lasciando le persone ad un destino di isolamento. Così si è creata una distanza enorme tra questi posti e lo Stato, visto come qualcosa di virtuale. Levi ha colto benissimo l'ideologia mitica ed anarchica che impernia molti paesi del meridione, ed è stato in grado di descriverla con precisione scientifica, pregevolezza poetica e rispetto.
RispondiEliminaInfatti: la potenza conquistatrice, poi trasformatasi in Stato, è sempre apparsa come violenta e repressiva, e disinteressata a tutto quello che non poteva monetizzare o convertire in trofeo. Non è triste? Per me, è una grossa occasione mancata.
EliminaPure io, come te, ne avevo sempre rimandato la lettura, sebbene sia un titolo celeberrimo.
RispondiEliminaCome nel caso di Fenoglio, mi è piaciuto che la voce narrante si limitasse a riportare gli eventi senza esprimere giudizi. Lo trovo un atteggiamento giusto in queste situazioni, forse l'unico possibile.
Credo sia un romanzo fondamentale della storia del nostro Paese, e forse la storia andrebbe studiata proprio attraverso queste testimonianze e non come mera successione di eventi.
Esatto: hai detto esattamente quello che penso. Per capire alcune pieghe della Storia, che non sono fatte solo di nomi forti e date altisonanti, sarebbe bello immergersi nella polvere di romanzi come questo. Non sono facili o divertenti, ma illuminano e fanno capire.
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina“lo faccio ma io non ci credo!" Eh sì, proprio così.
RispondiEliminaHai ragione quando affermi che Levi nel narrarci le vicende vissute in Lucania, come confinato durante il fascismo, non esprime severi giudizi che sarebbero tanto semplici. Solo alla fine si lascia andare ed espone il suo pensiero sul "problema meridionale".
Se t'interessa ti lascio il link alla mia recensione: http://pausalibro.blogspot.it/2014/02/cristo-si-e-fermato-eboli-di-carlo-levi.html
Un saluto
Grazie, vengo subito a visitarti!
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